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La retorica del ritorno alle origini

BonoGli ultimi, in ordine di tempo, sono stati gli U2 che hanno presentato Songs of Innocence come un ritorno alle origini. In un certo senso lo è giacché i testi raccontano storie legate alle radici della formazione e le musiche strizzano l’occhio al rock e al pop anni ’80 (ma quelle tastiere e quei cori goffi all’epoca erano banditi dai dischi dei quattro irlandesi). Non è la prima volta che gli U2 usano l’immagine del ritorno al passato. Lo fanno dal 2000, quando il singolo Beautiful Day aprì la strada a All That You Can’t Leave Behind, l’album in cui gli U2 tornavano a fare gli U2 dopo la scorribanda nel supermercato del Pop. Parlare di ritorno alle origini ha un certo potere evocativo, specie nei confronti di chi ti segue da sempre e prova un pizzico di nostalgia per l’epoca della sua giovineza. Significa riallacciarsi idealmente all’ispirazione e all’energia di un tempo. È una formula magica e una narrazione efficace. Gli U2 sono in ottima compagnia. Dopo un periodo di (spesso lieve) devianza dal proprio canone, molti artisti rock annunciano il fantomatico ritorno alle radici che raramente s’accompagna alla pubblicazione di grandi dischi.

Anche il tema del cambiamento ha dato origine a una retorica fastidiosa, ma è pur vero che se hai qualcosa di importante da dire, specie dal punto di vista musicale, guardi avanti e non dietro le spalle. In alcuni casi il dichiarato ritorno alle origini significa che l’artista ha smesso di incidere lavori maldestramente moderni per dedicarsi a quel che sa fare meglio. Ma i rocker che hanno vissuto una seconda giovinezza – anche per una sola stagione – mai l’hanno fatto in nome di un supposto ritorno alle radici. Pensate se Bob Dylan avesse cercato di riscrivere Blowin’ in the Wind al posto di farsi guidare da Daniel Lanois in territori sonori inesplorati. Immaginate Lou Reed che non mette insieme quell’album favoloso che è New York e cerca invece di scimmiottare Transformer. Considerate che cosa sarebbe successo ai Radiohead se avessero fatto The Bends 2 e non Kid A.

A ben vedere, anche dietro al ritorno alle origini di Johnny Cash con Rick Rubin c’erano elementi di sostanziale novità. Nessuno aveva mai sentito la voce di Cash esprimersi con quell’eloquenza e con quella “presenza”, e il repertorio, dai Soundgarden ai Depeche Mode passando per i Nine Inch Nails, non era esattamente I Walk the Line. Non era nemmeno un ritorno alle radici, a ben vedere. Era piuttosto un ritorno all’essenza dell’arte di Cash e non aveva niente a che vedere col fascino esercitato dal passato. Anzi, era una celebrazione della capacità di un artista di vivere la propria età. Eppure la retorica del ritorno alle origini ci piace. Ci rassicura. Rinnova il legame con gli artisti che amiamo. Offre l’illusione del ritrovamento di una formula magica. Ma nella maggior parte dei casi si concretizza in dischi privi dell’ispirazione e dell’energia che cercano di ricatturare.

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