Un anno fa si chiudeva l’avventura di JAM. Quando il direttore del mensile m’invitò a pensare a una cover story speciale, slegata per una volta da motivi d’attualità, uscite, ristampe o interviste, mi venne l’idea di scrivere delle canzoni che chiudono i grandi album. Più precisamente, delle canzoni che chiudono dischi che amiamo e che riflettono sui concetti di fine, passaggio, morte, rinascita. Avremmo cantato la fine del giornale attraverso musiche, parole ed emozioni di venticinque grandi canzoni. E sarebbe stato un coro: affidai ogni brano alla cura di un diverso autore sfidando la convinzione del direttore secondo cui i collaboratori avrebbero dovuto apprendere della chiusura del mensile solo dopo l’uscita in edicola dell’ultimo numero. Cercai la massima connessione fra canzone e giornalista nella convinzione che, mettendo in gioco il legame emotivo con quei brani, gli autori avrebbero finito per scrivere anche di sé e del giornale. Rinunciai perciò a closing songs che amavo come Indifference, My City of Ruins o Won’t Get Fooled Again e non me ne pentii. Mi tenni giusto l’introduzione dell’articolo. Eccola, un anno dopo. È un modo per ricordare e ringraziare i tanti collaboratori che per vent’anni hanno reso vivo il giornale. Senza di loro, JAM non sarebbe stato lo stesso.
È un attimo perfetto, una sensazione che dura una frazione di secondo. È l’istante in cui un grande album finisce. Quando anche l’onda dell’ultimo armonico si dissolve nell’aria non resta che l’eco immaginaria della musica che hai ascoltato. Per quaranta minuti il mondo non è esistito. Ora, per un momento fugace, sei immerso nel silenzio, eppure ancora dentro la musica. Fra pochi secondi ti chiederai quale altro disco potrai mai ascoltare per sentirti altrettanto appagato. E libero. È una magia rara. Perché accada un album dev’essere come un racconto: deve avere un inizio folgorante e una narrazione avvincente. L’unico modo per farlo è avere grandi canzoni e metterle nella giusta sequenza. È un’arte perduta in quest’epoca di musica liquida e playlist, ascolti distratti e consumo bulimico.
I romantici irriducibili che considerano l’album una forma d’arte o anche solo un medium potente sanno che c’è un altro elemento indispensabile affinché la magia accada: un gran finale. Cos’avete provato quando vi siete imbattuti in The End alla fine di The Doors? Avete trattenuto il respiro quando avete ascoltato per la prima volta A Day in the Life messa lì, in fondo a Sgt. Pepper? Avete urlato assieme a Won’t Get Fooled Again? War e The Unforgettable Fire degli U2 non avrebbero avuto lo stesso slancio spirituale se l’ultima parola non fosse stata affidata a 40 e MLK, e Nebraska sarebbe stato un massacro se non si fosse chiuso con le parole di Reason to Believe. E poi, Redemption Song non era una gran chiusa per Uprising? E Indifference per Vs?
Il finale può essere mesto, riflessivo, scoppiettante, arrabbiato, ambiguo. Un giuramento o uno sfogo. Una dichiarazione di resa o un calcio nei denti. Un riassunto o un rovesciamento di significati. Un salto nel vuoto o un balsamo per l’anima. Succede, a volte, che le closing tracks riflettano sul concetto di fine. Perché lo incarnano. Perché dialogano con le altre canzoni dell’album prendendosi l’ultima parola. Perché ragionano su un prima e su un dopo. In definitiva, perché ti mettono a confronto con la fine: di una fase dell’esistenza, di un progetto, di un rapporto, di una vita. Di un giornale di musica che fai, su cui scrivi, che leggi.
Ecco, come la chiudi la storia di JAM? Come elabori il concetto di fine? Coinvolgi i collaboratori che hanno reso vivo il giornale e li inviti a evocare una possibile declinazione della fine in musica andando a ripescare venticinque grandi finali di album. Perché se dobbiamo chiudere quest’avventura che almeno sia con un coro: di chi ha amato il giornale, di chi ci ha messo passione e competenza, di chi testardamente crede ancora nel potere salvifico della musica.
Perciò, ecco il finale di JAM: cantato dai musicisti che amiamo, raccontato da una molteplicità di autori. Per articolare i concetti di fine, passaggio, morte e rinascita ci siamo fatti consigliare dalle voci folli e sagge di Bob Dylan, Mick Jagger, Neil Young, Kurt Cobain. Di Jim Morrison che definisce la fine «mia unica amica», di Bruce Springsteen che incita a rialzarsi dopo essere caduti, di Roger Daltrey che ringhia «non ci faremo più fregare». In fondo dicono tutti la stessa cosa. Dicono che devi guardarla in faccia, la fine. E poi andare oltre.
Le 25 canzoni scelte dalla redazione e dai collaboratori, in ordine cronologico d’uscita: It’s All Over Now, Baby Blue (Bob Dylan), Tomorrow Never Knows (The Beatles), The End (The Doors), I Shall Be Released (The Band), You Can’t Always Get What You Want (The Rolling Stones), In The Ghetto (Elvis Presley), Won’t Get Fooled Again (The Who), When the Levee Breaks (Led Zeppelin), From the Morning (Nick Drake), Rock’n’Roll Suicide (David Bowie), Brain Damage / Eclipse (Pink Floyd), For Everyman (Jackson Browne), Free Bird (Lynyrd Skynyrd), Starless (King Crimson), Here Comes the Flood (Peter Gabriel), Hey Hey, My My (Into the Black) (Neil Young), L’anno che verrà (Lucio Dalla), 40 (U2), Life Without You (Stevie Ray Vaughan), All Apologies (In Utero), Indifference (Pearl Jam), Hurt (Nine Inch Nails), Smisurata preghiera (Fabrizio De Andrè), Death Is Not the End (Nick Cave), My City of Ruins (Bruce Springsteen).
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