Interviste

La sfida di Mike Scott ai grandi del rock

Mike Scott«Gli anni ’80 sono stati così orribili che ho dovuto reinventarli», dice Mike Scott. In un certo senso è vero. Nel decennio di Duran Duran e Wham!, del Roland e dei videoclip di Mary Lambert, della dance pop e dell’hair metal, i suoi Waterboys erano sinonimo di resistenza musicale. Parevano visionari provenienti da un altro mondo. Facevano musica epica e ispirata, scrivevano delle grandi cose della vita, riallacciavano il discorso interrotto dai poeti del rock e dagli spiriti liberi del folk. Oggi sono ricordati come una delle cose migliori del rock britannico di quel periodo anche se loro, scozzesi trapiantati in Irlanda, hanno vissuto poi stagioni grigie e inciso dischi passabili.

Dopo aver musicato nel 2011 le poesie di W. B. Yeats, Scott e gli Waterboys tornano col loro disco più agguerrito e a fuoco da una ventina d’anni a questa parte. Lanciato dal singolo November Tale scritto col cantautore James Maddock, Modern Vlues suona come una rivincita. Dentro c’è tutto il mondo Waterboys: le fughe musicali, la spiritualità, gli squarci di vita quotidiana, lo spirito combattivo, le canzoni per metà autobiografiche e per metà romanzate, un suono molto “americano”, e tanto pathos. Forse lo ascolteremo dal vivo in autunno, quando la band verrà in Italia, o almeno così promette Mike Scott al telefono da Dublino.

Prima di dedicarti a Modern Blues hai lavorato al monumentale cofanetto di Fisherman’s Blues, un altro album dei Waterboys inciso sostanzialmente dal vivo…

«Con una differenza: all’epoca entrammo in studio senza sapere quel che volevamo e finimmo per registrare qualunque canzone mi passasse per la testa. Questa volta i pezzi erano pronti prima di entrare in sala d’incisione. Sono stato molto più disciplinato».

Sapevi fin dall’inizio che volevi un suono molto rock?

«Le nuove canzoni avevano bisogno dell’aria sfrontata che solo un’incisione dal vivo può dare. Ecco perché ho registrato a Nashville, dove ci sono ancora studi capaci d’ospitare sei musicisti alla volta e fonici in grado di far sentire l’eccitazione di una band che suona dal vivo. Nashville non è più solo la capitale mondiale del country. Ascolti qualunque musica, laggiù».

L’album è stato mixato da Bob Clearmountain, che ha lavorato con artisti d’immenso successo, da Bruce Springsteen ai Simple Minds. Il suo sound è poderoso e radiofonico. È stata una mossa per avere accesso ai network americani?

«No, non ho fatto un ragionamento tanto rozzo. Avevo semplicemente bisogno di qualcuno che facesse un buon lavoro. Il primo mix di Modern Blues l’ho fatto io da solo, a Nashville. Non era granché. Mi sono licenziato e ho chiamato Bob».

Il singolo November Tale ha tutta l’aria di un dialogo sulla religione…

«È la storia di due persone che si conoscono da un bel pezzo e che appartengono a due fazioni opposte, divise da uno steccato spirituale e ideologico. Eppure riescono a trovare un’intesa e una causa comune».

Dai tuoi testi traspare spesso un forte sentimento spirituale. Credi in Dio?

«Dipende. Definisci Dio».

Dio come Creatore…

«Non credo esista Qualcuno, ma credo esista Qualcosa che va oltre la comprensione umana, Qualcosa che sta dietro la bellezza dell’universo. Ma non aderisco ad alcuna religione».

Elvis-Presley-1957I Can See Elvis è una delle migliori canzoni che abbia sentito sull’aldilà rock. È frutto del fascino che la figura di Presley esercita su di te?

«No, non direi. Non mi affascina più di tanto, però amo i suoi primi dischi e riconosco in lui una personalità importante nello sviluppo della cultura popolare del ventesimo secolo. Mi è capitato di chiedermi: se un giorno lo incontrassi in paradiso, quale Elvis sarebbe? Quello dei film? Quello caricaturale degli spettacoli a Las Vegas? Oppure quello giovane?».

Alla fine incontri l’Elvis del 1957, un’ottima annata…

«E in sottofondo ci sono coretti che rimandano ai Jordanaires…».

Tempo fa cantasti del ritorno di Jimi Hendrix. Senti un legame speciale coi grandi rocker del passato?

«Non più di qualunque altro amante del rock. Per intenderci, non sono un collezionista di Presley e Hendrix. Amo di più Beatles, Marvin Gaye, Bob Dylan, Rolling Stones. Ma Elvis e Jimi sono grandi personaggi ed evocano storie formidabili. E comunque non ho scelto io di scrivere di loro. Sono le canzoni ad essere venute da me».

In che senso?

«The Return of Jimi Hendrix è frutto di un sogno che feci a New York all’incirca venticinque anni fa, dopo aver visto un film con protagonista Jimi. Ho sognato che veniva a casa mia, suonava la mia chitarra, andavamo per locali. Una volta sveglio, ancora percepivo il potere, la magia di quel sogno. Lo annotai e ci feci la canzone. Il pezzo su Elvis invece nasce da uno scherzo. Anni fa dopo un concerto mi fermai a chiacchierare coi musicisti della band. Si parlava di esperienze di quasi-morte. Hai presente le storie di chi arriva un passo dalla morte e vede un tunnel con in fondo una luce? Ecco, uno dei musicisti finse di essere appena tornato dall’aldilà e disse: “I can see Elvis!”. Questa è una canzone, mi sono detto».

Ti consideri un freak?

«Sì, ma non nel senso di fenomeno da baraccone, come la donna barbuta o l’uomo dalle due teste. Un freak nel senso di individuo, come lo si intendeva negli anni ’60».

Pensi che oggigiorno ci siano pochi freak nel mondo della musica?

«Gli uomini d’affari hanno preso il posto dei freak».

Quando hai cominciato, negli anni ’80, era diverso?

«Oh no. Gli anni ’80 sono stati così orribili che ho dovuto reinventarli. Ma per lo meno allora c’erano molti cani sciolti. Oggi è difficile essere anticonformista. Jack White è uno dei pochi musicisti che hanno fatto carriera alle proprie condizioni. Lo rispetto per questo».

A proposito di anni ’80, i Simple Minds hanno titolato il loro ultimo album Big Music, come la tua canzone del 1984 diventata un’etichetta sotto cui furono riuniti Waterboys, U2, Alarm, Big Country e gli stessi Simple Minds. Avevate qualcosa in comune?

«Francamente non credo. Ho sempre pensato che fossimo piuttosto diversi l’uno dall’altro. Noi Waterboys siamo sempre stati, come dire, ai margini. Mi piaceva quel che facevano le band che hai citato, ma mi sono sempre sentito più affine a Neil Young, a Bob Dylan o a Van Morrison».

modern bluesI fiati di Nearest Thing to Hip fanno molto Van Morrison. È una canzone sulla gentrificazione, sulla sparizione di negozi e locali importanti nella vita comunitaria dei quartieri. Quando l’hai scritta pensavi a una città reale o immaginaria?

«Entrambe le cose. Ho preso spunto da una piccola città scozzese, di cui però non dirò il nome, ma potrebbe essere la città in cui vivi tu o Dublino. Oppure New York: ogni volta che ci vado scopro che un vecchio negozio ha chiuso. Tipo Bleecker Bob’s, il miglior negozio di dischi al mondo, un posto che restava aperto fino all’una di notte. Ci potevi andare dopo i concerti a comprare fantastici dischi soul. Al suo posto adesso c’è una yogurteria, o qualcosa del genere».

Pensi che l’attuale stato comatoso del rock derivi anche dalla mancanza di una cultura di strada in città dove trionfano le solite catene?

«È complicato. Da una parte ci sono strade costellate dai soliti negozi, Tommy Hilfiger e Starbucks ovunque: molto noioso. Le differenze fra una città e l’altra sono sempre meno pronunciate. D’altra parte grazie a Internet non è mai stato così facile trovare musica e letteratura interessante. Ma è pur vero che Internet contribuisce ad appiattire il panorama metropolitano: se non ci fosse Amazon ci sarebbero più librerie e piccoli negozi di dischi. E dunque, è un bene o un male? Non lo so. Non giudico, osservo il fenomeno».

I dischi vendono sempre meno, la gente ascolta la musica in streaming. Sei preoccupato?

«No, gli Waterboys se la cavano egregiamente grazie ai tour e ai festival, e come autore incasso piuttosto bene. So che i servizi in streaming non pagano granché, ma ho altre cose a cui pensare».

Sei rimasto sorpreso quando Ellie Goulding ha centrato un hit nel Regno Unito con una vecchia canzone dei Waterboys, How Long Will I Love You?

«Per niente. Ho sempre creduto in quella canzone. Non ci credevano i discografici che ai tempi di Room to Toam, nel 1990, non la vollero pubblicare come singolo».

Le motivazioni che ti spingevano a fare musica trent’anni fa sono cambiate?

«Sono le stesse. La musica viene da un posto profondo dentro di me e fa di tutto per uscire. Sai cos’altro mi motiva? La competizione. Voglio essere bravo tanto quanto i rocker migliori in circolazione. Questo mi ispira».

E chi sono i tuoi rivali?

«Chiunque. Neil Young che ha appena pubblicato un album, Bob Dylan che ne farà uscire uno di canzoni di Sinatra, e poi Jack White, i Black Keys. Voglio fare dischi migliori dei loro. Hai presente il pezzo di dieci minuti che chiude l’album, quello che si apre con la voce di Jack Kerouac che legge Sulla strada? Ecco, Long Strange Golden Road è il mio guanto di sfida a Jack White, a Leonard Cohen, a tutti i songwriter della terra. Provate voi a fare altrettanto».

Pubblicato originariamente su Rockol

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