Suoni sofisticati e allo stesso tempo primitivi, sconquassanti, terragni. Strumenti tradizionali ed elettronici che si fondono in modo organico. Musiche eloquenti e immaginifiche. Parole che sembrano scolpite, segni elementari che parlano di natura e di morte. Un modo di cantare lontano da ogni stile collaudato. Una narrazione sonora che t’afferra dal primo minuto e non ti lascia più. L’anima del cantastorie digitale che incontra quella del musicista. L’album italiano del momento parla un linguaggio potente dove convivono semplicità e complessità, classicità e modernità. E come tutti i lavori importanti, dà l’impressione che non vi siano note superflue, solo quelle necessarie.
Jacopo Incani ha esordito come Iosonouncane cinque anni fa. La macarena su Roma era un disco bello e strambo, che buttava sul tavolo un’ipotesi di musica senza confini dove s’incontravano cultura digitale e cantautorato, un teatrino politicizzato che descriveva il nostro tempo accostando una serie di vignette dissacranti e stranamente poetiche. Il nuovo Die ha tutt’altro respiro. È una suite divisa in sei parti accomunate da motivi melodici, collegamenti armonici, ricorrenze nei testi. Dietro c’è una storia vista da due punti di vista concorrenti: un uomo è al largo, in pericolo in mezzo a una burrasca; una donna lo osserva dalla riva e teme per la sua vita. Anzi, non è propriamente una storia, è un’immagine esplorata da vari punti di vista, il contrario della varietà di riferimenti a cose, persone, fatti, luoghi del primo album di Iosonouncane. I pensieri dei due personaggi s’intonano a un paesaggio selvatico e arcaico, e sono espressi con parole semplici, ricorrenti, primitive. Ma il bello non sono i testi: è la capacità di Incani di dipingere per 39 minuti immagini sonore potenti.
Per capire la materia di cui è fatto Die, bisogna comprendere com’è stato registrato. Per un paio d’anni Incani ha cumulato idee, frammenti sonori, riff, parti strumentali. Li ha assemblati fino comporre lo scheletro dei sei brani. A quel punto li ha riportati in sala d’incisione per registrarli nuovamente e rielaborare il suono affiancato dal co-produttore Bruno Germano. La dimensione da one man band di Iosonouncane, che dal vivo si esibisce da solo manipolando in tempo reale i campionamenti, s’è intrecciata felicemente con quella collettiva fornita dai quindici musicisti coinvolti nel progetto. E così, al contrario di La macarena su Roma, che aveva tutta l’aria del collage sonoro brillante ma assemblato in ristrettezza di mezzi, Die è straordinariamente compatto e organico. Ha tutto: musicalità, fascino, inventiva, mistero, originalità.
Die è diverso da qualunque altra cosa abbiate ascoltato quest’anno, eppure è composto da elementi che vi sono famigliari: cantautorato, progressive, industrial, psichedelia, techno, tutti usati con la naturalezza di chi possiede un’idea “totale” della musica. Il canto a tenore – Incani è originario della Sardegna – concorre a dipingere lo scenario di Tanca, che annuncia l’album con i suoi 8 formidabili minuti di musica cupa, fra suoni gutturali e sferragliamenti minacciosi. La coralità dei contributi musicali rende l’album eccitante in ogni passaggio: grazie ai “barriti” di trombone, tromba e sax baritono, all’ampia gamma di suoni prodotti da chitarre classica, acustica, elettrica e sarda preparata, ai cori femminili che appaiono repentinamente come flash, alle punteggiature di pianoforte e alle note tenute di tastiera, le sei canzoni di Die seguono un copione in continua evoluzione. Strumenti acustici, elettrici ed elettronici concorrono a creare un disco suggestivo, che ad ogni ascolto svela nuovi particolari.
Il modo più semplice per entrare nel mondo di Die – che in sardo significa “giorno”, ma letto all’inglese suona come “morire” – è passare per l’euforica Stormi, la cosa più simile a una canzone offerta qui da Iosonouncane. Ma anche in questo caso la forma è volutamente incerta, non c’è una successione di strofe e ritornelli, ma un tema esposto e poi ripreso con alcune variazioni. In altri casi, strofa e ritornello ci sono, ma è come stare su delle montagne russe grazie all’eccentricità degli arrangiamenti e a piccoli accorgimenti metrici (Carne). I pezzi partono da semplici frasi di chitarra e si espandono fino a raggiungere i 10 minuti di durata in un tour de force psichedelico dove gli scenari cambiano di continuo (Buio). Il concetto di circolarità sostituisce l’idea di narrativa lineare e brevi frasi musicali sono il motore per digressioni sonore astratte e potenti come quella di Mandria che chiude l’album.
Die non è un disco per tutti, ma racconta sentimenti e stati d’animo universali, è frutto della fedeltà a una visione artistica che ha qualcosa di maniacale, rivendica l’idea di musica come pratica artigianale complessa. È immagine che si fa racconto sonoro, ed è una delle cose migliori capitate alla musica italiana di recente.
Pubblicato originariamente su Rockol
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