S’incammina a testa bassa verso il palco. Indossa un maglione scuro con un disegno a cuori stilizzati, ai piedi calza scarpe da bowling, l’abbigliamento meno rock’n’roll che si possa immaginare. Però quando apre bocca ti fa mancare il terreno sotto i piedi e ti risucchia nel suo mondo. L’harmonium a cui sta aggrappata è la porta d’accesso a quell’altra dimensione. Con la mano sinistra aziona il mantice a soffietto, con la destra suona sulla tastiera bordoni da cerimonia funebre. Accompagnata da pedal steel (o chitarra o basso) e batteria, per le prime quattro canzoni tiene gli occhi chiusi, il mento lievemente alzato, la bocca che quasi ingoia il microfono. A tratti sembra d’assistere a una seduta spiritica e invece è un piccolo rito rigenerativo. Complici i temi delle canzoni di Last Year’s Savage, un concerto di Shilpa Ray è un’ora di camminata sul confine sottile fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Lei spesso stona. Il registro è bene o male sempre quello, complice l’estensione limitata dell’harmonium. Gli arrangiamenti sono semplici, direi primitivi nello stesso senso in cui lo erano quelli dei Velvet Underground. Si parte dall’abbandono della ragazza di Burning Bride che balla finché non prova più niente e si va giù fino al tormento struggente di Hymn. Shilpa Ray carezza questo nulla raccontando storie di morte e annullamento di sé come il salto nel vuoto di Pop Song for Euthanasia. Ma il graffio nella voce, l’intensità che ci mette, l’emotività di cui sono caricate le canzoni raccontano una storia di sopravvivenza. Tipo Johnny Thunders Fantasy Space Camp, apparentemente un’adesione eccitata alla narrazione intergenerazionale dell’autodistruzione rock, in realtà un rifiuto di quel mito che Shilpa Ray sputa con rabbia nel microfono.
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