Interviste

Il mestiere di performer: intervista a Jim Kerr dei Simple Minds

jim kerrUn’unica data italiana il 21 novembre al Forum di Assago, alle porte di Milano, un doppio live, la ristampa dell’album di Alive and Kicking, un singolo con gli Stranglers, un disco nuovo. Jim Kerr parla dei progetti dei Simple Minds. Le ultime due volte che si sono esibiti a Milano l’hanno fatto all’Alcatraz, un locale da 2.000 persone circa. Ora, sulla scorta di Big Music, album più solido dei precedenti, tornano in un palasport, come negli anni ’80-90.

Che tipo di concerto dobbiamo aspettarci?

«Sarà uno show diverso dal solito. Faremo 24, 25 canzoni tratte da ogni fase della nostra carriera. Aspettatevi una cosa molto teatrale. Dall’ultimo tour abbiamo cambiato la mentalità. Ora siamo in sette sul palco, compresa la cantante Sarah Brown e Catherine AD che suona le tastiere, la chitarra e a sua volta canta. Stiamo ancora crescendo come band».

Tu e Charlie Burchill siete a metà strada fra i 50 e i 60 anni, eppure siete sempre in tour…

«Oggi i concerti sono l’unica fonte di guadagno. Un album è un successo se coi ricavi delle vendite copri i costi di registrazione. E poi, per essere una grande live band devi continuare a esibirti, non puoi andare in tour una volta ogni cinque anni. Suonare è la nostra vita, il sogno di quando eravamo giovani».

Ormai suonare dal vivo per voi sarà routine. Come fate a mantenere viva l’attenzione? E che cosa rende una serata migliore di un’altra?

«Ogni sera è una sfida. Per centrare il bersaglio devi suonare in modo fantastico e avere grandi energie da spendere. Non accade sempre, a volte facciamo concerti così così e non è accettabile. Non ci limitiamo a portare sul palco le nostre canzoni. Ci portiamo il risultato di tutta una vita».

Ricordi la prima volta che venisti a Milano? Tu e Charlie avete dormito in Stazione Centrale, giusto?

«Sarà stato il 1976. Giravamo l’Europa in treno e in autostop. In tasca avevamo pochi spiccioli, ecco perché dormimmo in stazione. Non dovevamo venirci, in Italia. Vivevamo a Glasgow quando un amico che stava a Londra mi scrisse una lettera – all’epoca i miei non avevano nemmeno il telefono. Devi venire qui, scriveva, vieni a vedere i Sex Pistols e il punk-rock, è roba pazzesca. Perciò facemmo l’autostop fino a Londra. Lì un camionista ci disse che andava a Parigi: ne approfittammo per vedere l’Europa continentale».

Eri mai stato in Italia, prima?

«Sì, a 13 anni con la scuola, a Rimini. Lì scoprii che il mondo era a colori e non in bianco e nero come a Glasgow. Trovai un negozio che vendeva le versioni italiane dei dischi di David Bowie e dei Genesis, spesi tutti i miei soldi in un giorno solo».

Il vostro concerto più grande a Milano fu nel luglio 1986, a San Siro. Lo ricordi?

«Per tifosi accaniti come noi fu un’emozione suonare là dentro. Tu pensa, non conoscevamo il Duomo, ma San Siro sì. Anzi, San Siro era il nostro Duomo. Onestamente non lo ricordo come un gran concerto. Non eravamo sufficientemente bravi, non avevamo esperienza, non c’era la tecnologia che oggi permette di far sentire la musica fin nelle viscere. In quel periodo magari facevamo un concerto buono, due ottimi, uno passabile, un altro buono, e così via. La verità è che non provavamo a sufficienza, non facevamo i compiti a casa».

Mai avuto paura di salire sul palco?

«Ricordo tre date di fila a Milano ai tempi di Street Fighting Years. Forse al Forum?».

No, al Palatrussardi…

«Fu snervante. Prima dei concerti volevo dormire per recuperare le forze, essere nel flusso, entrare per così dire nella trance agonistica, ma non ci riuscivo. Ero troppo nervoso».

Come hai sviluppato il tuo linguaggio del corpo, in concerto?

«È un ballo con il pubblico. Il linguaggio del corpo è il prodotto del modo in cui sento la musica, è un’esigenza espressiva. Ok, quando ho visto che funzionava forse ho iniziato a esagerare».

Ti sei ispirato a qualcuno?

«No, è una cosa solo mia, non mi sono ispirato ad altri. Tutto ciò che fanno i Simple Minds è homemade, nessuno ci ha insegnato come si scrive una canzone o come ci si muove sul palco. Ne siamo orgogliosi. Per una cosa però ci siamo ispirati a qualcuno. Hai presente quando dico il pubblico “let me see your hands”, fatemi vedere le mani? Quella frase, che sta diventando un po’ una parodia, è nata dal mio secondo concerto della vita, David Bowie a Glasgow. Nei bis fece Rock and Roll Suicide. Quando cantò la frase “Gimme your hands ‘cause you’re wonderful” tutti alzarono le mani. Mi restò impresso».

Il 14 novembre sarà messo in vendita sul vostro sito il doppio album dal vivo Big Music Tour 2015. Come sarà?

«L’abbiamo registrato per lo più a Edimburgo, in Scozia. È un live al 100%».

Non si può dire la stessa cosa di Live in the City of Light

«Effettivamente quell’album dal vivo fu ripulito. Era lo standard dell’epoca, prova a ripensare al live di Peter Gabriel o al cofanetto di Bruce Springsteen. La decisione di ritoccarlo, riregistrando diciamo il 5%, fu dovuta a problemi tecnici, un cavo difettoso che fece perdere alcune parti del concerto o qualcosa si simile. Il problema è che quando cominci ripulire le registrazioni non ti fermi più. Arriva qualcuno che suggerisce di ritoccarle ancora un po’ nella speranza di andare in radio e finisci per perdere il controllo».

Quel live è incluso nel cofanetto di Once Upon a Time che esce in dicembre. Perché quello, che è arcinoto, e non un disco dal vivo inedito?

«Perché non ce l’abbiamo. All’epoca per registrare un disco dal vivo ci voleva uno studio mobile, era una faccenda complessa. I fan chiedono di pubblicare lo show di Rotterdam, ma non ne possediamo i diritti, sono di un’emittente tv. Se la Universal non li compra, niente live. Vale anche per gli inediti incisi in studio: non ne abbiamo, all’epoca eravamo impegnati ad andare in tour, non si registravano più canzoni di quelle che sarebbero entrate a far parte nell’album».

Come vanno i lavori sul disco nuovo?

«L’idea iniziale era fare qualcosa di simile a Big Music, ma le canzoni stanno prendendo una direzione più electro, più dance, con grandi linee di basso e poche chitarre rock. Intanto abbiamo fatto un singolo con gli Stranglers, con cui faremo sei date, purtroppo non in Italia. È una versione di (Get a) Grip (On Yourself). Siamo io, Charlie e Mel Gaynor con tre di loro, Baz, JJ  e Dave. Grande energia, una cosa punk-rock».

 

 

Pubblicato in altra forma su Rockol

 

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