Interviste

Come vive il musicista italiano dell’anno: intervista a Iosonouncane

iosonouncane monomusicmagLo dicono tutti, o quasi: Die è il disco italiano del 2015. Il secondo album di Iosonouncane, nome d’arte di Jacopo Incani, è un collage originalissimo in cui strumenti tipicamente rock, fiati, sintetizzatori e voci sono trasformati in campionamenti e riassemblati in una suite in sei parti piena d’inventiva, poetica, passione. L’ho recensito qui. E per celebrarlo, ho chiesto a Incani di raccontarmi come vive il mestiere di musicista.

A fronte di tante lodi, provenienti dal piccolo blogger come dalle riviste del Gruppo Espresso, riesci a vivere di musica?

«A meno che non si abbia una platea enorme è possibile vivere di musica solo fino a quando si è il tour».

E poi?

«Poi devi essere bravo a mettere da parte i soldi che ti permettono di prenderti il tempo necessario per scrivere e registrare l’album successivo. Specie per uno come me, che lavora in totale isolamento per otto, nove, dieci ore al giorno. Ho i miei rituali ossessivi. Ho bisogno di riascoltare quotidianamente il materiale su cui sto lavorando. Ho bisogno di tempi morti in cui ragionare su quel che dovrò fare. Ho la necessità di fare tanti errori e scartare parecchio materiale».

I mezzi che hai a disposizione finiscono per influenzare quel che fai…

«È inevitabile, ma sono abituato a fare con quel che ho. Ti faccio un esempio. Nel disco volevo inserire voci femminili. Non potendo convocare un coro di venti persone ho utilizzato al massimo del potenziale la voce di Serena Locci. Le ho fatto cantare molte tracce da cui ho estrapolato campionature che sono andate a comporre le armonizzazioni. Faccio di necessità virtù».

Quante copie ha venduto Die?

«Sinceramente non lo so. Alcune migliaia, direi».

Non sai quanto vendi?

«Oggi la fonte di sostentamento principale è rappresentata dai concerti, ecco perché tutti ne fanno molti, anche le band affermate. Mi dicono che c’è un buon equilibrio quando il numero dei cd venduti corrisponde al 10% dei biglietti staccati. Noi siamo oltre il 10%, ma le entrate derivanti dalla vendita dei cd sono irrisorie».

Hai idea dei ricavi derivanti da Spotify e dai servizi di streaming?

«I brani sono molto ascoltati, Stormi in particolar modo, ma quello che viene corrisposto è ridicolo. Ci compro le sigarette per una settimana».

Non è frustrante o demotivante? Voglio dire, ci metti anni per mettere a punto un disco di valore, ambizioso, curato come Die e poi scopri che solo poche migliaia di persone sono disposte a spendere 10, 12, 15 euro per comprarlo…

«Siamo abituati al fatto che tutto è sostanzialmente gratis, ma non è frustrante, io stesso compro raramente dischi. Siamo nel mezzo di una fase di passaggio. Non sono catastrofista. La musica continua: se vai in un ovile di Orgosolo trovi quattro pastori che cantano a tenore».

Non provi un senso di precarietà?

«Sinceramente no. Se avessi voluto avere la certezza di uno stipendio a fine mese non avrei fatto il musicista. Non ho mai avuto neanche minimamente la tentazione di cedere alla necessità di fare cassa. Nella mia vita professionale sono più le cose che ho rifiutato di quelle che ho accettato di fare. Sono convinto di una cosa: nel momento in cui disco dopo disco, scelta coerente dopo scelta coerente ti sei fatto una platea consolidata, le persone ti seguono non per il repertorio, ma per la tua poetica, per il tuo percorso».

Quali offerte hai rifiutato?

«Dico di no al 90% delle cose che mi offrono. Collaborazioni in cui sento di non potere dare nulla se non il mio nome nei credits. Proposte da case editrici per scrivere libri. Continue offerte per fare reading. Tutte attività che i musicisti fanno per far cassa. Mi piace una frase di Dargen D’Amico: l’inchiostro solidifica solo ad alte quote. Preferisco fare una cosa con dedizione maniacale piuttosto che farne tante in modo mediocre. Mi lascia sgomento, a volte m’infastidisce proprio il fatto che in un mercato piccolo e autoreferenziale come quello italiano ci si consoli rivendicando la propria mediocrità».

Chi rivendica la propria mediocrità?

«Chi punta a ottenere risultati nella media e li giustifica eticamente, poeticamente, artisticamente. Chi propone una minestra talmente riscaldata da essere scotta. E invece se l’arte non è ambiziosa tradisce la sua stessa natura. E infatti quando escono dischi che si distinguono per la loro ambizione vengono riconosciuti come tali. È accaduto con Die, era successo con Wow dei Verdena».

Pensi che attività come fare ospitate o reading sminuirebbero la tua musica?

«No, ma non appartengono alla mia identità. Se ci metto cinque anni a fare un disco arriva una poetica precisa, solida. Se attorno ci metto cose fatte per tirare su soldi o far girare il nome, quella solidità viene meno. Ma non è neanche questo il motivo per cui dico no. Il punto è che cerco di non fare ciò che m’imbarazza, anche eticamente. Chiedono a me di fare un reading o di scrivere racconti solo perché sanno che ho un mio piccolo seguito, che mi porto dietro qualche migliaio di lettori assicurati, ma so di non avere alcuna preparazione per farlo e so che altri lo farebbero meglio di me. L’Italia è piena di giovani scrittori bravissimi e invece contattano me. Non voglio esserne complice».

Il tuo modo d’essere musicista è quasi antistorico. Ti nascondi per anni per creare, mentre gli altri cercano di esserci, di occupare il più possibile il discorso pubblico.

«Non li giudico, dico che esserci più del necessario mi imbarazzerebbe e toglierebbe qualcosa al mio progetto. So che viviamo un’epoca che richiederebbe comportamenti diversi, ma faccio fatica anche solo a gestire le pagine Facebook e Instagram, mi stanca tantissimo mentalmente».

Si dice che oggi un musicista non può limitarsi ad essere tale. Deve essere anche imprenditore, social media manager e…

«Sono tutte cazzate per sostenere la mediocrità di cui ti parlavo. Le rifiuto categoricamente. Nel momento in cui un disco è buono, gira da solo. E in ogni caso, fare certe cose non è nella mia natura: sono il peggior venditore di me stesso».

Non resta che fare molti concerti…

«E facendoli non avanza molto tempo per fare dischi. Quindi, o pubblichi un album ogni due anni e intanto fai reading e cori di qua e di là, oppure rischi come me di rimanere con il culo per terra pur di prenderti tutto il tempo che vuoi. Il mercato si rinnova molto velocemente, c’è l’idea che la gente si scorderà di te se non ti fai vedere».

A te è andata bene…

«Sì, però quando è partito il tour di Die i cachet erano più bassi, proprio perché il mio nome non girava da anni. Mi si diceva continuamente: più ritardi l’uscita del disco, più la gente si dimenticherà di te. Si è rivelata una cazzata. Il pubblico italiano è composto da persone molto più intelligenti di quel che pensano gli operatori del settore, in molti casi molto più intelligenti degli stessi operatori del settore. Bisogna smetterla di dire che la gente vuole merda per giustificare il fatto che le si dà merda».

Quanto costa fare un disco come Die?

«Tanto. Si pagano i musicisti, si pagano i mixaggi, si paga anche l’attesa stessa per lavorare a casa. I costi sono difficilmente quantificabili, ma avendo fatto una co-produzione artistica con il mio fonico, Bruno Germano, ho speso meno di quanto avrebbe speso un musicista obbligato a pagare le giornate di studio effettivo. Posso dirti che per fare un disco con i miei tempi mi sono preso grandi rischi. Mi sono indebitato».

«Mi sono indebitato per incidere questo disco» non è una cosa che si legge nelle cartelle stampa…

«E invece capita a tutti i musicisti, inevitabilmente. Mi è stato segnalato un post sulla pagina dei Verdena. Avevano rotto una chitarra Fender Jaguar e ne chiedevano una in prestito per un concerto. Molta gente rispondeva inferocita con sparate allucinanti come: “Con il cachet di una sola sera ve ne comprate quindici”».

Il che dimostra che la gente non sa qual è il cachet per un concerto…

«O non sa quanto costa una Jaguar… Guarda, nessuno di noi vuol passare da martire. Faccio il musicista, è una scelta di vita di cui mi assumo i rischi. Sono conscio che il ritorno economico dipende da ragioni effimere e sapendolo non me ne lamento. Avrei potuto continuare a lavorare in un call center o cercare un impiego che mi assicurava uno stipendio a fine mese. Quindi no, non mi lamento perché non vendo milioni di dischi e non sono pieno di soldi. Non saprei neanche che farmene…».

Hai avuto modelli di ruolo, musicisti che stimi per come hanno gestito la loro vita artistica?

«Fabrizio De André. Ha portato avanti il suo discorso centellinando la presenza per paura di essere invadente. Esemplare».

Nel 2015 sei stato in tour da solo e poi in acustico. Il ciclo di concerti legati a Die continuerà nel 2016?

«Sì, nella terza veste possibile e forse quella più giusta per il disco».

Con una band?

«Sì, ma non posso dire di più. Die è un disco molto suonato, anche se si tratta dell’orchestrazione di piccoli frammenti musicali. Sono poche le sequenze suonate di una certa lunghezza e quando ci sono si tratta di elementi stranianti in una struttura composta da collage di compionature o microloop. Non è un disco di musica elettronica, è un disco in cui si fa uso dell’elettronica».

Quali sono i tuoi album dell’anno?

«Ho ascoltato molta poca musica nel 2015. Fra gli stranieri, mi sono piaciuti moltissimo Kendrick Lamar, Sufjan Stevens e Joanna Newsom. Fra gli italiani, Verdena, Colapesce e il mio preferito in assoluto, anche se non compare in nessuna classifica di fine anno: Paolo Angeli».

 

 

Pubblicato originariamente su Rockol

 

Categorie:Interviste

Tagged as: , ,

Lascia un commento

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione / Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione / Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione / Modifica )

Google+ photo

Stai commentando usando il tuo account Google+. Chiudi sessione / Modifica )

Connessione a %s...