Se possiedi tutta la musica del mondo, che cosa ti rappresenta davvero? È la domanda posta da Nick Hornby nella prefazione 2015 al suo romanzo più conosciuto, Alta fedeltà. A distanza di vent’anni dalla prima edizione del libro, la vicenda di «quelle persone un po’ confuse, ma profondamente snob, che ci vendevano la musica ai tempi in cui la musica era ancora qualcosa che si poteva toccare» può sembrare irrilevante. Lo stesso Hornby annota che il romanzo «ormai ha vent’anni e le innovazioni tecnologiche degli ultimi quindici possono senza dubbio farlo sembrare un libro in cui si parla di fabbri, lattai o tutte quelle altre professioni che nel mondo moderno si sono estinte». Aggiunge, però, che comprare dischi è un atto che ti definisce e che «ogni tanto devi uscire di casa e mostrare chi sei e cosa ti piace. Devi andare agli spettacoli, alle mostre e nelle librerie, devi chiedere quello che desideri a voce alta». Ecco da dove scaturisce la domanda: se possiedi tutta la musica del mondo, che cosa ti rappresenta davvero?
E se la domanda fosse piuttosto: se possiedi poca musica, non avrai una visione limitata? Avere centinaia di migliaia di canzoni a disposizione stordisce, magari spinge alla bulimia, a volte limita le possibilità di coltivare una conoscenza approfondita, però regala uno sguardo più ampio sulla musica stessa, e in definitiva sul mondo. E che ci piaccia o meno, l’idea che la musica popolare sia una parte fondamentale della nostra identità è novecentesca. Siamo diventati ascoltatori critici, cinici persino. «Kill yr idols» dicevano i Sonic Youth nel 1983. Nell’era dei social l’omicidio ha luogo ogni santo giorno. Siamo disincantati e molto più informati di una volta. Il mondo musicale che conoscevamo all’epoca della prima edizione di Alta fedeltà ci va stretto. La nostra identità non è più riassumibile in una cinquantina di dischi acquistati nel giro di quattro anni. Non è un bene questo, Mr. Hornby?
Leggi qui la prefazione 2015 di Alta fedeltà
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