L’ultimo colpo di scena è il più incredibile: due giorni dopo il 69esimo compleanno, due giorni dopo l’uscita dell’album Blackstar David Bowie è morto, stroncato da un cancro contro cui si batteva da un anno e mezzo. La sua eredità è talmente vasta da comprenderci tutti, chi ha conosciuto la sua musica negli anni ’70 e chi ha iniziato con Let’s Dance, chi ne venerava l’icona glam e chi ne apprezzava il trasformismo, chi l’ha visto dal vivo negli anni ’90 e chi è stato folgorato dalla cosiddetta trilogia berlinese. In queste ore, siti e blog sono pieni di ricordi e analisi della sua straordinaria avventura nel mondo del pop: lunga e variegata, piena d’inversioni di marcia e scarti di lato. Bowie ci ha detto molte cose sul pop, persino a un passo dalla morte. Ecco, allora, che cosa ci ha insegnato con la sua opera estrema, il disco di un 69enne che si confronta con un mondo sempre più caotico. Al posto di rifiutare quel caos e rifugiarsi in un passato rassicurante, Bowie ci si è immerso e, per quel che può un artista, ha suggerito una lettura poetica.
Famigliare e alieno Non devi per forza inseguire il gusto del pubblico, è una delle cose che ci ha detto Bowie con Blackstar. Lo puoi stimolare e restare un passo avanti pur continuando ad essere un artista pop privo d’ogni ansia avanguardistica. E chissà che la coscienza della fine non l’abbia stimolato ad abbandonare ogni remora, a liberarsi. Basta confrontare l’album del grande ritorno di tre anni fa The Next Day e Blackstar per misurare la distanza fra il Bowie che conoscevamo e quello che abbiamo (ri)scoperto pochi giorni fa. Battere sentieri conosciuti può essere una strategia vincente, e molte eminenze rock la praticano, da sempre. Farlo a 69 anni sarebbe perfettamente naturale. Riuscire a scrivere e incidere un disco originale come l’ultimo di Bowie, originale eppure così famigliare perché perfettamente inserito nella sua storia e nella sua poetica, non è da tutti. Ma non è quel che dovrebbe fare ogni volta la musica rock? Non dovrebbe ogni volta seguire le proprie visioni con determinazione, con ferocia persino?
Prenditi della libertà Afferrare la struttura delle canzoni di Blackstar non è immediato: non sempre Bowie mette in fila strofe e ritornelli come nella classica scrittura pop-rock, alcune canzoni sono divise in sezioni che si alternano, altre somigliano a jam session. In molti casi, la performance vale più della scrittura. E poi ci sono i testi: un enigma. Con passaggi sul tema della morte che è inevitabile leggere col senno di poi. A volte è difficile, anche dopo uno due tre ascolti, sapere di cosa tratta di preciso una canzone, ma non ciò non toglie nulla alla piacere dell’ascolto, anzi, incita a prestare ancora più attenzione, a cercare indizi, a scavare nei riferimenti. Non sempre c’è bisogno di cantare le cose in modo diretto, scontato, aperto.
I musicisti dietro gli strumenti Nell’album del momento, quello che aveva già raccolto un consenso straordinario prima della scomparsa del suo autore, è possibile sentire i musicisti dietro gli strumenti. Dovrebbe essere scontato, ma nel 2016 non lo è più giacché il pop e il rock ci hanno abituati al mimetismo fra parti programmate e suonate. Anche Blackstar è stato inciso usando la tecnologia digitale, ma ascoltate il modo in cui Mark Giuliana e James Murphy scompigliano la ritmica di Sue (Or in a Season of Crime) oppure il basso animato di Tim Lefebvre in Lazarus o ancora il sassofonista Donny McCaslin ‘Tis a Pity She Was a Whore e un po’ dappertutto. Ascoltate e sentire il suono di fiato e ossa e tendini e muscoli. È eccitante nel 2016 come lo era nel 1966. E poi c’è la voce di Bowie, immersa a volte in un brodo digitale che la fa sembrare lontana, aliena. Ma quella cosa ce l’hai o non ce l’hai. Si chiama carisma e Bowie ne aveva in abbondanza.
L’album conta ancora Blackstar non è un concept e dentro c’è di tutto, con canzoni dai riferimenti vari, alti e bassi. Ma possiede comunque una sua unità concettuale e musicale, dettata in parte dall’idea di fare suonare del rock a musicisti jazz e in parte dalla volontà di restare dentro il proprio tempo. Fotografa un momento, ha un suo mood. È fatto per essere colto nel suo insieme. Bowie è morto, ma l’album come opera unitaria e non semplice raccolta di canzoni è vivo, o perlomeno sopravvive. Questo poi dura 41 minuti, come un disco anni ’70 o ’80. E nessuno sente il bisogno di una canzone in più.
Scomparire è ok Non saliva su un palco da dieci anni, non concedeva interviste, si mostrava raramente in pubblico. Persino le foto promozionali erano pubblicate con parsimonia. Perciò il suo ritorno è stato accolto con un’enfasi dedicata a un mito ritrovato. Non so quanto la malattia abbia determinato la strategia comunicativa dell’ultimo Bowie, ma da quando è tornato a fare musica l’ha fatto comunicando solo attraverso dischi e video, lontano anche per un fatto generazionale dall’occupazione della discussione pubblica messa in pratica dagli artisti di oggi. È la vecchia scuola, e funziona ancora. La sua assenza non l’ha danneggiato, ha anzi accresciuto il suo status. Tant’è che, all’uscita di Blackstar, molti l’hanno descritto come un artista puro, un trasformista che ha sempre coraggiosamente ignorato gusti e trend. Non è vero. Ha avuto una carriera favolosa, Bowie. E come tutte le carriere lunghe ha scritto dischi opachi e ha strizzato l’occhio al sound di moda. E se avesse continuato a fare dischi, dopo Reality del 2003, forse avrebbe fatto ancora cilecca. E invece nel punto più estremo della sua opera e della sua vita ha scelto di dire poche cose, ma importanti.
Bellezza e consolazione C’è un momento, in Blackstar, in cui la voce di Bowie ferma il tempo. Succede dopo quattro minuti avvolti nel mistero e in presagi di morte. Per attimo i colori si schiariscono, gli arabeschi di sax tacciono, i vocalizzi funerei sono sostituiti da una frase di sintetizzatore luminosa. «Something happened on the day he died / Spirit rose a metre and stepped aside / Somebody else took his place, and bravely cried», canta Bowie e la sua voce suona limpida e vibrante e umana. Comunque vogliate interpretare quei versi oggi, dopo la morte del cantante, quel passaggio è pieno di bellezza e di misteriosa consolazione. Questo ci ha detto David Bowie con Blackstar: lascia dietro di te una scia di bellezza.
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