Camminano sovraeccitati puntando la telecamera. Sono Beyoncé, Chris Martin dei Coldplay e Bruno Mars, 400 milioni di dischi venduti in tre, e si devono stringere per farceli stare tutti quanti nell’inquadratura. Ieri sera, come da tradizione, l’intervallo del Super Bowl allo stadio di Santa Clara, California è stato animato da un’esibizione musicale a metà strada fra la cerimonia d’apertura di una manifestazione olimpica e la performance a un MTV Award, quest’anno senza strascico di polemiche – vedi il nipplegate di Janet Jackson del 2005 o il middle finger di M.I.A. ospite di Madonna nel 2012. Dal «Super Bowl halftime show» sono passati in tanti, dai Rolling Stones agli U2, da Bruce Springsteen a Katy Perry. C’è il pop e c’è il rock. C’è un’idea ecumenica e spettacolare della musica, com’è pacifico che sia in un quarto d’ora d’intrattenimento allo stadio, con milioni di americani seduti davanti alla tv. È un minishow che unisce coreografie gigantesche e riprese tv spettacolari, una cosa che dovrebbe far lanciare un «ohhh» di stupore. Ieri sera l’intermezzo ha fotografato lo stato del pop di largo consumo contemporaneo. E non è stato un grande spettacolo.
Al via, una massa di ragazzi festanti ha invaso il campo sfiorando Chris Martin. Accovacciato sul campo di gioco, il cantante intonava le parole di Yellow per introdurre Viva la vida. L’esibizione dei Coldplay, di cui Knowles e Mars erano ospiti, è stata esemplare nel mostrare che cosa rischia di diventare il rock oggi: una musica dietro cui è impossibile anche solo intravedere la personalità dei singoli musicisti, una base generica su cui innestare grandi cori collettivi. Al Super Bowl i Coldplay l’hanno tradotta in modo visivamente efficace, con l’idea del fiore elettronico e l’arrivo della University of California Marching Band e delle altre comparse, ma la loro performance ha dimostrato quanto blando e incolore diventa il rock quando rinuncia a trasmettere valori musicali – e uso la parola incolore in evidente contrasto con l’estetica superpantone dei Coldplay e le scelte cromatiche vivaci ispirate al festival di Glastonbury. E mentre gli inglesi finivano il loro show sotto lo sguardo del regista Hamish Hamilton, quello dei concertoni su dvd degli U2, lo schermo trasmetteva immagini degli intervalli del Super Bowl degli anni passati.
Uptown Funk di Mark Ronson è un pezzo formidabile, ma la breve esibizione di Bruno Mars ha mostrato quanto derivativo può essere il pop contemporaneo, un misto di funk, rhythm & blues e cultura hip-hop sradicati dal contesto storico che li ha prodotti. Con addosso un costume che citava quello usato da Michael Jackson nel Super Bowl del 1993, Beyoncé ha presentato al pubblico americano una porzione del nuovo singolo Formation pubblicato a sorpresa sabato sera via Tidal. Privo delle immagini del video girato a New Orleans che l’accompagna, il brano ha mostrato tutti i suoi limiti e anche passaggi significativi come «Mi piace il mio naso da negra e le narici alla Jackson 5» sono passati inosservati. Entrato nell’era del post ritornello, l’R&B di Beyoncé si basa sul carattere vivido, quasi tridimensionale dei suoni ascoltati in cuffia o su un piccolo impianto audio – il modo in cui la maggior parte della gente ha ascoltato il pezzo da sabato sera fino a oggi. Portato in uno stadio, il pezzo ha perso ogni efficacia e anche il significato fra il femminista e il politico dell’idea della «formazione» a Santa Clara è svaporato per diventare una coreografia come tante.
«Facciamo tremare lo stadio», ha detto Mars nel punto in cui Formation s’è fusa con Uptown Funk e con un accenno di Crazy in Love. È l’unica cosa che spettacoli pop del genere riescono a fare oggigiorno: far tremare gli stadi con la propria presenza per poi dissolversi lasciando come uniche tracce iniziative promozionali clamorose – il lancio del tour di Beyoncé, che ha mandato in tilt il suo sito – e conversazioni social su vestiti, coreografie e pose.
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