Interviste

Kula Shaker, il reboot dei mistici del rock

Kula ShakerC’è stato un tempo in cui il misticismo pop dei Kula Shaker era hip. Di certo era molto popolare tra il 1996 e il 1999, quando la band inglese pubblicò due album e una mezza dozzina di singoli di successo, arrivando primo in classifica nel Regno Unito, per poi sciogliersi sulla soglia del nuovo millennio. Le loro scelte controcorrente – tipo citare Jerry Garcia nell’era del drum & bass – sembravano epiche e romantiche. Quando si riunirono nel 2006 incidendo altri due album la loro musica suonava semplicemente fuori dal tempo. Il nuovo K 2.0 ravviva la loro miscela di rock chitarristico britannico, echi di psichedelia americana e suggestioni induiste assorbite durante un viaggio giovanile in India. Ha il tiro e l’entusiasmo necessari per riaccendere l’interesse verso una band che col rilassato e in parte acustico Pilgrims Progress del 2010 non è riuscita a entrare nemmeno fra i primi 100 in classifica. «Per inciderlo siamo quasi impazziti», dice del nuovo album il cantante, chitarrista e autore Crispian Mills, dotato di un senso dell’umorismo che non sempre traspare dalla sua musica. «Dopo sei anni in cui ci siamo dedicati alle nostre famiglie, l’idea era costruire le canzoni attorno all’energia che abbiamo quando suoniamo dal vivo, così possiamo portarle in tour e spaccare culi». Prego verificare il 25 febbraio all’Alcatraz di Milano e il 26 all’Orion di Roma.

Il titolo K 2.0 richiama quello dell’album d’esordio K, di cui cade il ventennale…

«Avevamo scelto d’intitolare il secondo album K2. Avevamo persino deciso di mettere la montagna himalaiana in copertina, ma una volta svanito l’effetto-battuta l’abbiamo chiamato Peasants, Pigs, and Astronauts, un titolo decisamente più sensato. Il nuovo album, vent’anni dopo, rappresenta la chiusura del cerchio che ci riporta alle origini e contemporaneamente annuncia un nuovo ciclo. Già, preferisco la visione circolare del tempo a quella lineare. Ma a parte questa roba metafisica, abbiamo deciso che il titolo K 2.0 era perfetto per questi tempi di aggiornamenti di software, reboot e obsolescenza programmata».

Nei momenti migliori si percepisce il calore e l’entusiasmo di voi musicisti, un fatto non così comune nella scena odierna…

«La colpa è in parte dei software che invece di essere al servizio del processo di registrazione lo guidano. Oggigiorno puoi controllare ogni misura, ogni beat, ogni nota che registri. Anche il software più scarso ti permette di correggere ogni singolo dettaglio in modo che sia conforme alla griglia. E invece la musica è imperfetta per natura. Controllarla significa appiattirne carattere e spontaneità».

Il singolo Infinite Sun contiene un canto che intonavate quando avevate più o meno 19 anni…

«Suonavamo al Green Gathering e ai festival alternativi, raduni comunitari in cui si dormiva nei tepee. In pratica si suonava ovunque ci fosse un palco. Ci piaceva farlo, in particolare, di fronte alla comunità arcobaleno di Glastonbury e a loro piacevano i nostri mantra e le nostre jam psichedeliche. In quei giorni lì suonavamo Infinite Sun, ma l’abbiamo trasformata in una vera canzone solo adesso. Bello tornare a farla vent’anni dopo. Vedi? La chiusura di un cerchio».

Sono io o sento una fugace citazione di David Bowie in quel «c-c-changes»?

«Sì, David c’è».

Con le sue esplosioni e il suo core, Holy Flame mi ha ricordato gli Who. È un gruppo che ami?

«Li ho visti dal vivo una volta sola, uno show di riscaldamento allo Shepherd’s Bush Empire di Londra. Non un posto enorme per loro, circa 1500 persone. John Entwistle era ancora vivo e alla batteria c’era Zak Starkey. È stato di gran lunga il miglior concerto rock che abbia visto in vita mia. Peter Townshend, poi, era stupefacente, eccitante, imprevedibile e pericoloso. The real deal».

Death of Democracy ha un’atmosfera anni ’60. Canti dell’antica Grecia per palare di quella contemporanea, e dell’Europa?

«Esatto. C’è un verso, quello che fa “I soldi sono la legge”, è un dato di fatto. È una tragedia. Chi sarà il prossimo?».

Che cosa significa Hari Bol, che è il titolo di una delle nuove canzoni?

«“Canta il nome di Krishna”. È un’espressione comune in India, un po’ come “Hallelujah”, e si pensa che abbia un potere trascendentale e curativo perché il nome di Krishna è l’Assoluto. Intonare mantra come Govinda Jaya Jaya ha un potere genuino, è il risultato di migliaia di anni d’antica saggezza».

Come valuti col senno di poi l’esperienza di regista che hai fatto per A fantastic Fear of Everything, il film con protagonista Simon Pegg?

«La prima volta che ho visto il mio film alla presenza del pubblico è stato al festival di Toronto. Ero terrorizzato, quasi levitavo dalla paura. Alla fine è piaciuto: i migliori 90 minuti della mia vita. Ora sto lavorando a un’altra pellicola con Pegg, e altre due sono in fase di sviluppo. Un film richiede una quantità di tempo mostruosa per essere sviluppato, vive in un continuum temporale a parte».

I gruppi di guitar rock come il vostro non vanno di moda. Pensi che il vostra musica possa avere una qualche rilevanza nel 2016?

«Non so, non ho mai seguito le mode, nemmeno quando avevo 17 anni. Ho sempre fatto le cose a modo mio. Magari oggi le radio non passano il guitar rock, ma le mode cambiano e i concerti sono una cultura che esiste indipendentemente dall’industria musicale mainstream. Scaricare un album intero è meno comune di un tempo. Ma non c’è un solo artista, e parlo di artisti veri, che non aspiri a incidere un buon album. Perché un bel disco è come un bel libro».

E come si fa a restituire alla musica il suo potere, a rivitalizzare il rock?

«Scrivi musica personale. Metti l’ampli a volume 11. Sii incazzato. Sii impavido. Fallo per amore».

 

 

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