Dalla il musicista, l’istrione, lo sperimentatore. Dalla il cantante, il clarinettista, il trasformista. Lucio Dalla era tante cose, fino al 1977. Tante tranne una, cruciale: autore dei testi delle sue canzoni. Nel paese dei cantautori – e che cantautori: in quel periodo sono attivi e fortissimi Fabrizio De André, Francesco De Gregori, Paolo Conte, Francesco Guccini, Claudio Baglioni, Antonello Venditti, per cominciare – Lucio Dalla si misura con la scrittura dei testi solamente al settimo album, Come è profondo il mare. In realtà lo ha fatto anche in passato, ma in modo decisamente sporadico. Ha alle spalle sedici anni d’attività discografica e una serie di canzoni strepitose, da 4/3/1943 a Nuvolari passando per Piazza Grande. Ha cantato parole di Sergio Bardotti, Gianfranco Baldazzi, Paola Pallottino, Ron. Gli ultimi tre album li ha scritti con il poeta e scrittore Roberto Roversi, all’insegna di una canzone civile dove s’incontrano poesia e impegno. In Come è profondo il mare fa tutto da solo e apre una nuova fase della sua vita artistica, quella dei grandi successi discografici, della popolarità, dei dischi di platino.
Per scrivere l’album Lucio Dalla si esilia alle Isole Tremiti, un posto, dice, «che favorisce il mio modo visionario di raccontare il mondo e poi aiuta a sognare, soprattutto quando c’è un meraviglioso cielo stellato che puoi vedere uguale solo nel Sahara». Lì nasce la canzone Come è profondo il mare, dal testo visionario o forse allucinato, che oltrepassa il confine del nonsense, fra poesia e delirio. Lucio Dalla lascia vagare la mente e sembra abbracciare il mondo intero. Il mare e le sue profondità che l’uomo immagina a fatica sono metafora della vastità del pensiero che «come l’oceano non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare». Il partner e collaboratore Marco Alemanno racconta nel libro Dalla Luce alla notte che il pezzo è stato ispirato dalla visione di un quadro di Arnold Böcklin «raffigurante la predica di sant’Antonio ai pesci e presente nella collezione del Kunsthaus di Zurigo, che abbiamo rivisto due giorni prima della sua scomparsa». Al posto di ingabbiare il canto nella metrica di una canzone tradizionale lo fa deragliare in mille direzioni, recitandolo in modo libero, scardinando una delle regole chiave della canzone.
È una svolta, e una liberazione. «Fino ad allora» spiegherà Dalla «non avevo scritto testi, e capivo, quando lavoravo con Roversi, che avrei potuto scrivere anch’io, ma era talmente forte, pregnante ed esaustiva l’esperienza con lui che cominciai a scrivere solo quando lui decise di non fare più i testi per me, non perché litigammo, ma per una serie di suoi impegni. Solo allora mi sentii pronto a scrivere. E lì fu la grande liberazione: cominciai a connettere i testi con quello che leggevo, e dovendo scrivere i testi ritrovai una serie di radici che non erano necessariamente poetiche, ma traevano linfa dallo scrutare la società che mi circondava. Questo determinò in qualche modo l’epicentro della mia creatività, che identificavo proprio nell’interfaccia, nello scambio continuo con il pubblico». E proprio un omaggio al linguaggio della gente comune è Disperato erotico stomp, un quadretto di quotidiana disperazione dalle tinte grottesche molto forti per l’epoca. Dalla, che riempirà la sua casa di Bologna di opere d’arte dedicate al sesso maschile, imbastisce una storiella il cui protagonista bighellona per la città: inizia con il riferimento a una fellatio e finisce con una scena di masturbazione. «L’impresa eccezionale» dice il testo «è essere normale», quasi un manifesto dell’intero lavoro. Un altro pezzo forte dell’album è Quale allegria, scritta per Ornella Vanoni che la include nel suo album del 1977 Io dentro, una riflessione disincantata su cosa sia la felicità, sul fatto che essa ci sia veramente concessa in questa vita, sugli errori che compiamo nel cercarla: un capolavoro di semplicità, dove la parola “allegria” è abbinata a una delle musiche più malinconiche dell’album. Come è profondo il mare non fa sconti: è amaro, in certi frangenti disperato, a tratti si crogiola nell’inquietudine, il più delle volte la combatte con la fantasia e l’ironia.
L’incontro-scontro fra testi e musiche di segno opposto – tristi gli uni, vitali le altre – dà vita a Treno a vela, una parabola surreale e leggera che parte da una triste scena di vita quotidiana, con un padre e un figlio che chiedono l’elemosina, un pezzo di pane, una mela, e finisce con un’immagine che sembra ispirata dal capolavoro di Vittorio de Sica Miracolo a Milano, come se l’unica via d’uscita da certe disperazioni fosse la fantasia e un volo in direzione del cielo. Nell’incalzante Corso Buenos Aires, un giorno d’ordinaria follia nella Milano d’agosto, un altro disperato – magari lo stesso di Treno a vela? – è braccato dalla folla. È un ladro? Un mascalzone? Magari un assassino? Le uniche vittime non le fa il poveraccio, che è armato sì di coltello ma per tagliare pane e salame. Le fa volante della polizia che giunge sul luogo chiamata dai benpensanti spaventati da quegli occhi a fessura. Anche la storia di solitudine di Il cucciolo Alfredo, che contiene il famoso verso «la musica andina che noia mortale, sono più di tre anni che si ripete sempre uguale», è proiettata come le precedenti sullo sfondo di una città crudele. Lucio Dalla risponde alle ansie di un’Italia divisa fra autunni caldi e perbenismi freddi, calando una galleria di derelitti in un contesto trasfigurato. All’impegno militante dei colleghi oppone il realismo fantastico dove convergono cruda realtà e paradosso poetico, per poi congedarci sulle note che cullano di Barcarola, scritta in una ventina di minuti con l’Isola di Ponza in testa.
Dalla registra l’album con il produttore Alessandro Colombini presso gli studi RCA di Roma, salvo incidere il brano che dà il titolo al lavoro allo Stone Castle di Carimate, in provincia di Como, con un diverso gruppo di musicisti. Masterizzato agli studi CBS di Londra, il disco esce nel novembre 1977. È più accessibile dei precedenti, è vario, godibile, ma non scontato, pieno d’invenzioni, con riferimenti al reggae, al jazz. È evidente la voglia d’abbracciare un pubblico più ampio mettendosi alle spalle la canzone civile di Roversi, il quale dirà per niente tenero che Dalla «ha voluto semplicemente essere lasciato in pace a cantare il niente. Sono scelte industriali, non sono scelte culturali». Eppure Come è profondo il mare apre un nuovo mondo musicale in cui lo stile e i tic di Dalla trovano un nuovo pubblico. Nasce anche il tipico look dell’artista, barba, abbigliamento lievemente trasandato, zucchetto di lana in testa, così come apparirà in concerto e sulle copertine dei dischi successivi. Mischiando personale e politico, e camuffando la disperazione con la dolcezza e viceversa, Dalla firma uno dei suoi album migliori che finirà citato dalla Treccani, alla voce “La canzone d’autore in Italia”. In Come è profondo il mare, scrive l’estensore Roberto Vecchioni, Dalla «riesce a esprimere l’uomo, confuso, parossistico, intriso di umori umani e aneliti ideali, solo a far la conta dei suoi complessi e delle sue ansie».
Foto da TV Sorrisi e Canzoni del 1983, testo pubblicato originariamente su Rockol
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