Dicono che stringergli la mano equivalesse a cercare di stringere la mano a un fantasma. Chi lo intervistava nella residenza di Paisley Park raccontava di trattative lunghe un anno e misure di sicurezza degne del Pentagono e divieti d’ogni genere, tra cui quello di registrare la conversazione. Si concedeva magari per tre ore a una giornalista di Billboard, che poi doveva correre in hotel a trascrivere quel che ricordava dalla conversazione. Le bizzarrie che Prince ostentava sopra e sotto il palco e il senso di segretezza di cui si circondava ne facevano uno degli ultimi divi irraggiungibili in un mondo di pop star che danno l’impressione d’essere accessibili. Lui no. Lui coltivava la sua alterità. Il talento smisurato tanto quanto l’ego, la portata epocale della sua musica, la scelta di non intrupparsi mai: Prince non era uno di noi. E ora che è scomparso, morto a quanto emerge dalle prime ricostruzioni in un ascensore di Paisely Park a soli 57 anni, pare davvero il fantasma di un’epoca in cui si diventava star non solo col potere suggestivo della provocazione e l’appoggio dell’industria discografica, ma pure con il talento di musicista.
Nel press kit che il primo manager Owen Husney confezionò per lui nel 1976, o suppergiù, la luce colpiva la figura del giovane Prince Rogers Nelson dal basso, in modo che la pettinatura afro sembrasse un’aureola. La sua musica, però, era materia per il corpo, una rielaborazione del funk che aveva ascoltato da ragazzo e che lui, esordiente a soli 19 anni per la Warner Bros, riproduceva in perfetta solitudine. Nel disco d’esordio For You, per dire, metteva le mani su quasi trenta strumenti. Cantava in falsetto, o comunque cercava il suo registro più alto, piazzava il sesso al centro della narrazione. «Le sue canzoni sono dichiarazioni erotiche fatte sulla pista da ballo o a letto, che sono qui luoghi intercambiabili», scrisse Rolling Stone del secondo album. Prince la metteva giù piatta. Niente mistica del sesso o dissimulazioni romantiche: «Ti voglio venire dentro» era un suo verso standard. Qualcuno disse che la sua propensione al sesso era inversamente proporzionale alla sua altezza e che dietro a tanta audacia si nascondeva un malcelato senso d’insicurezza. È certo che fra la fine degli anni ’70 e la fine degli ’80 – il periodo in cui pubblicò gli album migliori – spostò l’asticella di ciò che era lecito cantare nel pop un po’ più in alto, unico artista in grado di competere con Madonna in quel campo di gioco. Fra i due, lui appariva come quello più vizioso.
Ci volle qualche anno prima che il mondo capisse che quel musicista non era un wunderkind come altri, ma un innovatore, uno in grado di traghettare negli anni ’80 la black music, che usciva dai ’70 esausta e vampirizzata dalla disco. Fu chiaro nel 1982 quando pubblicò il doppio album 1999, il suo primo ad avere un eco anche in Europa, dove la gente cominciò a cercare sull’Atlante dove diavolo fosse Minneapolis, la città del fenomeno. Inventò un suono perfettamente al passo coi tempi trasformando in un’arte la miscela di drum machine, strati di sintetizzatori Oberheim e chitarre elettriche, e la distribuì generosamente nelle produzioni per altri artisti, spesso appartenenti alla corte dei miracoli e delle bellezze di cui si circondava. Produceva con una facilità sbalorditiva e divenne il simbolo del musicista workaholic, una specie di Frank Zappa nero in grado di sfornare un disco all’anno – un grande disco all’anno – con un’unica pausa nel 1983, prima del best seller Purple Rain, capolavoro accompagnato da un musicarello di grande successo.
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