C’è qualcosa d’incongruo e perciò d’affascinante nel modo in cui s’annuncia Canzoni della cupa. Inizia con un canto di lavoro delle tabacchine che Vinicio Capossela ha imparato a Patù, cittadina pugliese che gli ha dato la cittadinanza onoraria con tanto di cerimonia sulla battigia alla presenza della vicepresidente della regione – sul serio. Al posto di rendere il canto in modo fedele, Capossela crea un legame fantasioso e potente fra le raccoglitrici di tabacco italiane e gli schiavi portati negli Stati Uniti a tirar su cotone. Usa l’immaginario legato all’esperienza afro-americana per raccontarci il dolore e la fatica di casa nostra. Così è Canzoni della cupa, l’album in cui il cantautore attinge al mondo folclorico per trasformarlo in un’epica estrosa e personale dove s’intrecciano contro ogni logica sonetti, tex-mex, serenate a ingiuria, blues americano, ballate, folclore da sposalizio, tutti allegramente affratellati dall’idea che la musica popolare non la si debba mettere in museo, ma praticare e dissipare gioiosamente.
Canzoni della cupa e i concerti che seguiranno chiudono il discorso aperto con il libro Il paese dei coppoloni e il film Nel paese dei coppoloni. Un discorso iniziato nel 2003, quando Capossela effettuò le prime registrazioni mettendosi sulle orme di Matteo Salvatore. La sua non è un’escursione nostalgica in un’Italia rurale cancellata dalla modernità, ma un viaggio alla ricerca di segnali e suoni da un mondo antico da trasfigurare. Questo fa Capossela nelle migliori Canzoni della cupa: non prende la materia popolare per salvarla, ma per mimarla scrivendo canzoni originali. Non ha alcuna preoccupazione di tipo filologico. E spazia, nei riferimenti al popolare italiano, dalla Campania alla Puglia, e oltre. E così Flaco Jimenez aggiunge l’accordion a una storia calitrana, due violinisti francesi reclutati in un circo producono stridori poetici, i Los Lobos e i Giant Sand (Howe Gelb e i Calexico assieme e separati nelle stesse canzoni) ci mettono suggestioni provenienti da altri confini, tamburi a sonagli e zampogna sono abbinati a un contrabbasso suonato con l’archetto. Capossela mette da parte il pianoforte e imbraccia chitarra acustica e classica, affiancato a volte da strumenti come cymbalon, cubba cubba, vihuela, percussioni e corde d’ogni tipo e provenienza. E alla fine viene fuori una specie d’internazionale del folk che funziona quanto più s’allontana dal materiale originale.
Capossela ripete l’operazione nei testi. Alcuni restano fedeli alle parole che ha imparato dai cantori e dai «poderosi narratori orali». Altri trasfigurano piccole esperienze umane, storie di paese di tradimenti o lavori di fatica o feste sfrenate rielaborate dalla sua immaginazione. Per orientarsi, inserisce nella confezione cartonata scomponibile del doppio cd i commenti canzone per canzone e indici delle creature citate (vere e immaginarie, dal ciuccio al Pumminale), dei luoghi (la stazione, il camposanto, la cascina), dei personaggi (da Franceschina che si concede ai capocantieri della ferrovia fino a Dio). Emerge dallo sfondo una concezione di comunità che t’abbraccia e che ormai ci è sconosciuta e pure l’idea di esistenze messe a repentaglio dalla natura, da condizioni di lavoro dure, dalla malattia, persino da fantasmi. È il messaggio che arriva a noialtri figli della post modernità: la vita trionfa e lotta e canta forte quando è esposta al rischio e al pericolo. E difatti a Capossela piace citare Dylan quando dice che non c’è nulla di rassicurante nella musica folk.
Canzoni della cupa non è un disco facile o leggero, nessuno degli ultimi di Capossela lo è. Non ha la grazia, la poesia, l’invenzione folgorante dei suoi lavori migliori. Contiene una trentina di canzoni divise in due dischi chiamati Polvere e Ombra, di un’ora ciascuno. Il primo è più folkeggiante, con adattamenti da Salvatore e pezzi ispirati a canti popolari; il secondo contiene canzoni originali che rimestano la medesima materia con atmosfere decisamente più scure, arrangiamenti misurati, canzoni lente e affini al Capossela che conosciamo. Il cantautore non cerca la raffinatezza della scrittura, non allinea composizioni importanti, mette assieme tanta di quella roba da spingere chi l’ascolta a farlo con cautela, a prendere questa iniezione di folclore reimmaginato in dosi omeopatiche. Riesce però nell’impresa di tradire quel mondo e intanto di farcene innamorare. Racconta quella che per lui è la natura perduta di noi italiani e un mondo che sta scomparendo e difatti chiude l’album (prima di una ghost track) con Il treno che porta i migranti verso nord. Uno di essi era il padre di Vinicio. Visto da qui, dal treno pieno che lascia i balconi del paese vuoti, Canzoni della cupa sembra quasi il prequel della storia di Capossela, le radici un po’ vere e un po’ immaginarie di un artista che riesce ogni volta a reinventarsi.
Pubblicato originariamente su Rockol
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