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L’autobiografia di Cristiano De André è un libro sulla famiglia

La versione di CIl passaggio più drammatico arriva dopo una cinquantina di pagine. Cristiano De André ha 15 anni, vive a Genova e frequenta un brutto giro. Alla fine dell’estate il padre Fabrizio lo va a trovare per strapparlo dalle brutte compagnie e portarlo in Sardegna. Ma ha bevuto – siamo a pagina 50 e già abbiamo capito che non è una novità. Ha bevuto, dunque, e quando il figlio gli dice che non vuole partire e si chiude in bagno, lui reagisce male. Va in cantina, prende un’accetta e inizia a colpire la porta in legno massello del bagno. «Un colpo, due colpi, tre colpi. Non c’era ferocia, non c’era violenza, ma una lentezza disarmante, dimentica di ogni cosa, memore del momento. Colpo su colpo, scheggia su scheggia, per quasi un’ora, facendo una fatica titanica, poco alla volta la distruggeva. Io nel frattempo ero accucciato nella vasca da bagno con le mani sulle orecchie; vedevo la lama dell’accetta che spuntava al di qua della porta, avevo paura».

Il ragazzo fugge dalla finestra e si rifugia sul tetto dove il padre lo bracca brandendo l’accetta. L’inseguimento finisce sul prato di casa dove i due vengono alle mani. «Nella concitazione mi disse: “Reagisci, sei un uomo, reagisci!”. Non me lo feci ripetere, gli tirai due cazzotti che lo tramortirono. Quando si riprese, mi fece: “Lo vedi chi comanda qui? Hai capito che devi fare quello che dico io?”. Insomma, fu un momento tragicomico. Mi prese per mano, mi mise sulla due cavalli e ci dirigemmo a Tempio, entrambi coperti di graffi, di sudore, di pollini. […] D’un tratto tirò il freno a mano, mi guardò e disse: “Se proprio vuoi, ti riporto indietro”. In quell’istante trovò il tempo di piangere, piansi anche io e ci abbracciammo. Quando Dori ci vide arrivare, non seppe se chiamare un medico o un esorcista».

La famiglia sta al centro di “La versione di C.”, autobiografia di Cristiano De André scritta con Giuseppe Cristaldi. La famiglia è tutto. La famiglia è la madre Puny, debole perché incapace di lasciare il marito nonostante le sbronze e i tradimenti e le liti. La famiglia è un padre ingombrante che torna a casa ubriaco e sbraita e mena schiaffi, un padre che ha combattuto con l’alcol «immense sofferenze e inguaribili insicurezze» e smette solo quando glielo chiede un altro padre, il suo, in punto di morte. Cristiano assiste a scene drammatiche e litigi, come la volta in cui la madre spacca un posacenere di cristallo sulla testa del marito e lo crede morto. A che serve essere figlio di un genio, se quell’uomo ti dice che da te ha avuto due sole soddisfazioni nella vita, un dentice pescato a 6 anni e un secondo posto a Sanremo a 30? La mancanza è un buco che inghiottisce, la necessità di essere amato è dolorosa. La droga arriva «come uno tsunami» su una generazione, la musica lo aiuta ad abbandonare l’eroina. E poi c’è la famiglia, anzi le famiglie formate in età adulta e sono altre storie tormentate. E nel fondo di queste pagine c’è la voglia di vedersi bambino negli occhi del padre, dire papà ma tu mi hai voluto bene?, il desiderio di essere rassicurati da chi ci ha dato la vita. Essere amati.

Ma non succede se il rapporto resta irrisolto, fino alla fine o quasi. Solo durante l’ultima tournée assieme, scrive Cristiano, «per la prima volta sentivo di contare qualcosa per lui». Si è increduli di fronte alla scelta estrema del padre, oramai malato e spacciato, che decide di non vedere più il figlio, fino alla morte. A quel figlio che ancora si chiede il motivo di quella decisione – lo voleva proteggere? Non mostrarsi debole? – restano il rimpianto per non essere andato in fondo al loro rapporto e la consapevolezza che, a volte, la famiglia che abbiamo sarà la famiglia che avremo: «Ti ho visto troppo spesso di spalle, che te ne andavi, oppure di fronte, mentre ti mutavano gli occhi e quasi facevi paura, ma quel volto era il mio stesso allo specchio, tanti anni dopo. E a quel punto ho capito: ho capito che i miei figli hanno visto anche me chiudere una porta e sparire, ho capito che hanno sofferto magari più di quanto avessi sofferto io».

Oliviero Malaspina scrive nella prefazione che questa storia è «un puzzle affascinante dominato da due parole: bellezza e fragilità». La bellezza sta nel talento musicale che Cristiano De André riesce a coltivare come una cosa tutta sua, sottratta all’eredità del genio. Quando scrive testi è tormentato dall’immagine del padre che gli appare e gli dice «Che cazzo stai scrivendo?» e uno s’irrigidisce solo al pensiero di avere Fabrizio De André che ti legge in testa e ti sputa addosso il suo «Che cagata stai pensando?». Quando compone musica e suona, però, ha un talento che alla fine anche il padre gli riconosce. Matura la passione per il violino dopo avere osservato Lucio Fabbri suonare lo strumento con la PFM, racconta il piacere di stare sul palco come antidoto alla timidezza. E poi ci sono gli aneddoti curiosi. La notte in cui il padre canta alla madre Verranno a chiederti del nostro amore. Le visite degli amici di famiglia come Paolo Villaggio o Ugo Tognazzi. Mamma che fa le carte a Francesco De Gregori e lui che se ne esce fuori con il verso «chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente». I tizi dei New Trolls che lo chiamano Fabrizietto e si mettono in testa di fargli perdere la verginità. La madre che per ripicca, quando lui lascia casa, gli spezza duemila dischi in vinile fra cui la copia di Sticky Fingers con la cerniera vera, quella di Andy Warhol. La canzone sull’Aids scritta col padre che Pippo Baudo non ammette a Sanremo – Pippo Baudo che boccia i De André, ma ci credi? E Fabrizio che reagisce male: «Cazzo, io nella mia vita non ho mai voluto avere a che fare con Sanremo. Ora, mi ci metto per la prima volta e vengo anche scartato. Vaffanculo!».

Ci sono anche cenni a un album dei Tempi Duri rimasto nel cassetto e soprattutto a un’opera rock in tre tempi scritta e ancora inedita sulla fragilità di una ragazza. Lei, sfruttata e violentata, «si sente costretta a infilarsi un ago nel nervo per provare un dolore talmente intenso da passare a un’altra dimensione, ovvero la discarica delle occasioni perdute». È il posto dove «anche dopo cinquant’anni puoi richiedere formalmente di ritornare con la persona che non hai avuto modo di amare, o da chi non te lo ha concesso, per dimostrare che puoi ancora farti fulminare dalle ragioni del cuore». È un desiderio che, dopo 200 pagine, suona stranamente famigliare.

 

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