All’inizio sono le palpebre chiuse di Adele che si muovono impercettibilmente su un grande schermo. E quando gli occhioni finalmente si aprono, arriva lei, la cantante più amata d’Inghilterra. Non sul palco, ma in fondo all’Arena. Assediata dalla gente che la fotografa, attraversa lentamente la platea cantando Hello. Non poteva esserci inizio più ad effetto per il primo dei due concerti di Adele all’Arena di Verona, andati sold out in tre ore. Ma gli occhioni della diva sono l’unico effetto speciale concesso. Lo spettacolo non si basa su energia, ritmo, colpi di scena come quelli delle colleghe pop star, ma sul professionismo vecchia scuola e su interpretazioni vocali e musicali disciplinate, una rivisitazione leggera e ironica dell’eleganza delle grandi cantanti pop del passato.
Niente cambi d’abito per la ragazza di West Norwood. Avvolta in un lungo abito scuro in seta con paillette floreali firmato Burberry, che brilla colpito dalle luci di scena, prende la parola e spiega divertita che «Non ho molte canzoni felici, lo sapete vero? Ero preoccupata che non lo sapeste. Sarà una grande crying session». Il palco pensato per uno spettacolo indoor è stato adattato e reso più semplice per l’Arena. Lei sta di fonte al pubblico, su una pedana sistemata dove c’è la “buca” dei musicisti quando vengono rappresentate le opere. I suoi strumentisti sono molto distanti, alle sue spalle. Sono una ventina, fa cui una nutrita sezione d’archi, fiati, tre coriste, a metà strada fra le orchestre di un tempo e un gruppo pop di oggi. Il colpo d’occhio è strano: Adele sembra sola di fonte al pubblico, lei, l’asta del microfono e un tavolino su cui poggia una tazza da cui beve, «ma non alcol, sto cercando di essere professionale».
Nel giro di poche canzoni s’imparano due cose. La prima è che l’immagine di cantante strappalacrime non le si addice. È un’intrattenitrice brillante e ironica. Nelle pause fra un brano e l’altro infila una battuta dietro l’altra, raramente tace. Fa salire due fan sul palco, dialoga col pubblico, legge i cartelli che le vengono mostrati, racconta storie. La seconda cosa che s’impara è che, come dicono i suoi connazionali, «the girl can sing». È brava, canta in modo pulito, ma non va mai oltre le sue possibilità, controlla le sfumature, interpreta le canzoni con la mimica senza assumere atteggiamenti affettati. Nella parte centrale del concerto il grosso della band esce di scena per un piccolo set acustico che culmina nella cover di Make You Feel My Love di Bob Dylan per voce e pianoforte. La scaletta è identica a quelle delle date precedenti – questa è la quarantanovesima del tour – ma a Verona Adele regala un pezzo in più, Love in the Dark, apprezzatissimo. Ma i veri singalong sono prevedibilmente Chasing Pavements e Someone Like You. Nei bis, è lei a chiedere alla gente di abbandonare le sedie e farsi avanti, sotto il palco.
Lo schermo alle sue spalle è contorno, riproduce per lo più il primo piano di Adele nei toni del grigio da diva d’altri tempi, ma la gente apprezza e applaude quando durante Hometown Glory appaiono immagini di Verona e quando a When We Were Young sono abbinate foto della cantante bambina e poi incinta. La parola chiave è semplicità. Adele ha ricordato al pubblico oramai abituato alle produzioni complicate delle pop star contemporanee che una canzone ben scritta e una buona voce possono bastare. È una restauratrice della forma-canzone: senza mai sconfinare nel melodramma, senza esibire alcuna passione bruciante, usa melodie semplici e ritornelli efficaci al posto di colori strumentali accesi e slogan ripetitivi come meme. Il suo talento non intimidisce: intercetta il tono struggente dei soliloqui post adolescenziali che era stato eliminato dal pop d’alta classifica e lo serve in una serie di canzoni dall’appeal universale. Per decifrare uno spettacolo di Beyoncé oggigiorno serve un critico culturale. Per capire quello di Adele basta un minimo di educazione sentimentale.
Pur essendo parte di uno spettacolo che musicalmente non lascia spazio all’improvvisazione, Adele mantiene una buona dose di spontaneità e noncuranza. È la diva under 30 più ricca del pop britannico e l’autrice del best seller del 2015, vende dischi quando gli altri hanno oramai rinunciato a farlo, ma si mostra come una londinese qualunque dai modi spicci della working class. Altro che nostra signora della lacrima: è un’intrattenitrice con la spigliatezza della stand up comedian e il suo concerto non è una «crying session». Magari mancano un po’ di ritmo e di varietà, ma potete asciugare le lacrime: Adele non canta per commuovere, ma per intrattenere. La gente apprezza e finisce tutta in piedi a cantare Rolling in the Deep. Si accendono le luci accese e migliaia di pezzi di carta vengono sparati in aria. Me ne cade uno sulla spalla. Lo guardo. C’è scritto «Thanks for coming».
Pubblicato originariamente su Rockol
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