La tragedia è un peso da far scivolare giù dal cuore. È un segugio che ti trova ovunque e t’inchioda al letto dove il tuo giovane amore giaceva un tempo. È una tristezza che s’annida negli angoli. La tragedia potrebbe essere la fine di un amore, ma più Richard McGraw canta e più ci si convince che è qualcosa di più. Se davvero Tragedy è una promessa, e così sembra dal fatto che apre il ciclo di canzoni di How to Suffer come una prefazione agrodolce che si trasforma in melodramma, allora è la promessa di un rito, uno dei più antichi, uno sempre buono: usare la musica per raccontare la morte. «Ora mi vedrai cercare di dire addio», canta Richard McGraw mentre il ritmo in tre scandito dalla chitarra e da una tastiera elettrica tace per dare risalto alle parole. In quell’immagine sta lo spirito del disco, la storia di un uomo che lotta con forze più grandi di lui, che bisticcia con la vita, che canta per farsi forza.
Nel suo nuovo album How to Suffer, il cantautore americano Richard McGraw esplora la fragilità umana con la consapevolezza di chi non riesce a non levarsi dalla mente domande sulla vita e la morte. Non c’è requie nemmeno in Infinte Mind, che ha tutta l’aria del bozzetto pieno di calore e invece è il posto in cui prendono vita i pensieri in sovraccarico di un uomo che anche nella giornata più radiosa non riesce a non pensare al dolore. McGraw vorrebbe solo guidare fino al mare, affondare i piedi nella sabbia e scordare la propria finitezza. Lo racconta in una canzone tristissima che s’intitola Lovely Lanes of Hope, le adorabili corsie della speranza che non portano a nulla. Proprio in quel pezzo McGraw si attribuisce il titolo che merita: «heavy hearted king», il re dei cuori tristi, immalinconiti, depressi. Persino l’educazione ricevuta non serve a migliorare la propria posizione sociale, ma solo ad avere coscienza di quanto stupido e folle è questo mondo.
È crudele, McGraw, quando nel crescendo di Silver Trays, lascia che sia un coro di bambini a cantare la massima degli Who «Spero di morire prima di diventare vecchio». È uno dei momenti più duri ed emozionanti dell’album, la verità di una vita dedicata alla musica e il terrore d’essere finito in un vicolo cieco. Mentre la canzone incalza, la madre gli dice non di lasciare il lavoro e lui risponde che preferisce essere uno spiantato che fare un lavoro normale perché per lo meno gli spiantati si divertono. Ma una chitarra non basta a cacciare la tristezza: c’è sempre una porta aperta in cui s’infila, una crepa in cui non filtra la luce, ma il buio del nulla. «Non c’è pietà per me?», chiede McGraw in Sadness prima di riprendere a fischiettare come se nulla fosse sopra un’armonizzazione di trombone.
La scrittura è semplice, l’album rimescola decenni di cantautorato classico e indie, offre citazioni, fa leva sulla musica che già conosciamo per parlarci in una lingua condivisa. Ma è la “presenza” della voce di McGraw, il colore del suo quieto lamento a raccontare la verità di How to Suffer, ad inchiodare alla narrazione, a costringerci ad esprimere empatia per quest’uomo che canta la finitezza della nostra esistenza, che ci ricorda che ogni cosa prima o poi finisce, e che in fondo alla strada c’è un dolore che ci aspetta. «Ti mi hai insegnato lo stupore e io ti ho insegnato come soffrire», canta nel brano che dà il titolo all’album. È un disco dal passo meditativo, fatto di pochi tocchi, ma decisivi: c’è una tristezza profonda nel modo in cui McGraw canta di «una vita gettata nell’arte e una fila di dolori nella testa» mentre un pattern di batteria procede in modo meccanico e un sintetizzatore stende un velo di ghiaccio sull’afflizione del protagonista.
Si scivola verso la fine dell’album con la desolazione di Lonely Animal, la noncuranza di versi come «Sono passato attraverso il dolore, che altro avrei potuto fare?» e l’immagine mesta di un animale solitario e un bambino che guarda fisso. «See me, feel me, touch me, and heal me», canta McGraw citando ancora gli Who, ma non c’è niente di Tommy, qui, ma tanto Leonard Cohen, un po’ di Damien Rice e di Micah P. Hinson, e un accompagnamento maschile a bocca chiusa che dice più di tante parole. Nel testo abbinato alla strumentale Dearest Friends il cantautore annuncia che «la fine è vicina» e quindi ci resta «un ultimo giorno di amore e paura» e poi canta Shivering Spine, la «canzone che intono quando mi smarrisco».
How to Suffer non è un disco di drammi esposti con violenza, a tinte forti. I suoni sono misurati, anche quando entrano in scena un trombone, un vibrafono, un quartetto d’archi. I brani sono legati l’uno all’altro come in un vecchio concept. Ci sono canzoni aeree e leggere come Son of a Ghost. Ci sono delicati cori femminili e rifiniture di pedal steel. C’è una gentilezza nell’approccio musicale che solo occasionalmente viene violata da parti drammatiche in crescendo. How to Suffer è una guida all’insensatezza del dolore che funziona da momentaneo rimedio: McGraw guarda in faccia il suo, di dolore, per dirci che è tutto quel che abbiamo nella vita, lo strazio e quel che viene prima, se siamo fortunati, quel po’ di felicità che ci è concessa prima di capire che le adorabili corsie della speranza sono strade senza uscita. Ci sono le preghiere i sorrisi le urla di dolore della donna morente di Grandma, e non c’è altro. E anche se non inventa nulla di nuovo e anche se non è un capolavoro d’inventiva, How to Suffer mette in musica il prezzo che si paga quando si ama, dà un suono delicato al nulla che ci inghiotte.
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