Dice il regista Ron Howard d’avere utilizzato la mentalità narrativa di Apollo 13, il film sulla sfortunata spedizione sulla Luna del 1970. E così in Eight Days a Week: The Touring Years, il documentario sui Beatles dal vivo nelle sale italiane dal 15 al 22 settembre, racconta la parabola concertistica di John, Paul, George e Ringo come una grande avventura giovanile. Quattro ragazzi sono lanciati a tutta velocità nel mondo meraviglioso e pericoloso della fama mondiale, e per sopravvivere devono far leva sul proprio spirito di fratellanza. Confortato da nuove testimonianze di McCartney e Starr e da interviste d’archivio di Lennon e Harrison, Howard documenta sia l’atmosfera di gioiosa anarchia e di cameratismo che si doveva respirare in quei giorni, sia gli aspetti usuranti del lavoro di Beatle, un mestiere da «otto giorni alla settimana». Come gran parte dei film autorizzati, Eight Days a Week si tiene lontano da ogni controversia, ma non rinuncia a raccontare i lati negativi della vita di una celebrità, persino a metà anni ’60.
Ma i Beatles possono essere raccontati in modo inedito, nel 2016? Il film di Howard si basa su un lungo lavoro di ricerca negli archivi anche in modalità crowdsourcing svolto da una trentina di persone e partito nel 2002 su iniziativa della società di produzione One Voice One World. Il progetto è rimasto in stand by per molti anni, fino a quando la Apple ha coinvolto Nigel Sinclair, già produttore del documentario su George Harrison Living in the Material World. Al team si è unito Giles Martin. Il figlio e collaboratore di George si è preoccupato di pulire e migliorare il suono dei filmati spesso in Super 8 raccolti in giro per il mondo. Assemblando oltre 2000 elementi fra filmati e fotografie, Eight Days a Week racconta non solo l’attività del gruppo dal vivo, ma anche e soprattutto la Beatlemania, dall’ingresso di Ringo Starr nella formazione all’ultimo concerto al Candlestick Park Stadium di San Francisco nel 1966. È la storia della trasformazione di quattro teppistelli devoti al rock’n’roll in pop star oggetto di un culto senza precedenti, un’anteprima dai tratti naif dell’odierna cultura della celebrità. E perciò il documentario è pieno di folle festanti, ragazzi urlanti, discese dalle scalette degli aerei e fughe dai fan – il repertorio tipico della Beatlemania.
Il film racconta anche un percorso di crescita e consapevolezza, un processo di liberazione e rottura personale e generazionale. In uno dei passaggi migliori, un giornalista chiede al giovane McCartney come saranno ricordati i Beatles nella storia della cultura occidentale, una domanda che solamente col senno di poi possiamo considerare sensata. Il musicista risponde stupito: «Stai scherzando? Non è cultura, è divertimento», risponde lui. Nella prima parte si respira un’aria d’incantata ingenuità: ecco i quattro che nel backstage si preoccupano degli stivaletti stretti o dei pantaloni strappati, le risposte fulminanti di Lennon ai giornalisti, i siparietti comici, le smorfie, le battaglie coi cuscini nelle stanze d’albergo. «Come avere tre fratelli», dice Starr. C’è poi tutto un capitolo sulla Beatlemania, l’arrivo negli Stati Uniti, l’impreparazione della polizia di fronte alle masse dei fan. La musica diventa chiave di lettura di un nuovo mondo che si sta spalancando di fronte agli occhi degli adolescenti dell’epoca.
C’è poi un’ultima parte, più amara, in cui i quattro, cresciuti troppo velocemente, affrontano gli stadi privi della tecnologia che anni dopo avrebbe reso l’esperienza soddisfacente e usurati dagli aspetti peggiori della nascente cultura della celebrità. La Vox costruisce appositamente nuovi ampli, ma hanno una potenza di appena 100 watt. Il sistema d’amplificazione riesce a malapena a coprire le urla del pubblico – nel famoso show allo Shea Stadium furono usati gli altoparlanti dello stadio – e per capire a che punto sono della canzone Ringo deve guardare il piede che batte di Paul. Diventati adulti, tensione, insoddisfazione e frustrazione prendono il sopravvento. «Andavamo avanti per inerzia», confessa McCartney. Il film finisce con l’esecuzione di Don’t Let Me Down e I’ve Got A Feeling sul tetto terrazzato della Apple. In coda alla pellicola ci sono 30 minuti restaurati della performance allo Shea Stadium del 15 agosto 1965 mai pubblicata ufficialmente nella sua interezza: per chi non l’ha mai visto, è un documento impedibile della nascita del rock da stadio.
Eight Days a Week cerca di dare allo spettatore la sensazione di assistere a una loro esibizione e in alcuni rari momenti offre davvero l’impressione di essere lì con loro, in una camera d’albergo o a bordo di un aeroplano. Vediamo un primo piano della giovane Sigourney Weaver fra il pubblico dell’Hollywood Bowl e ascoltiamo Whoopi Goldberg ricordare che ci si poteva sentire amici dei Beatles nonostante le barriere razziali. È l’unica, relativa novità offerta dal film, che sottolinea l’importanza della clausola contenuta nel tour rider dei Beatles che prevedeva che non suonassero di fronte a platee segregate. Grazie alla presa di posizione dei Beatles, il Gator Bowl di Jacksonville, Florida ospitò nel 1964 il suo primo concerto non segregato, per la gioia della piccola Kitty Oliver allora quindicenne afroamericana catapultata in mezzo a una folla prevalentemente bianca.
A parte questo aspetto, noto ma sinora non enfatizzato, Eight Days a Week racconta una storia ampiamente nota, e al di là del piacere che provocano certi particolari, come ascoltare le voci dei quattro nel backstage o spiarne anche solo per pochi secondi le esibizioni in giro per il mondo, è un film pensato per chi deve ancora scoprire il mondo dei Beatles e magari ha passato gli ultimi sei mesi ad esplorarne il repertorio su Spotify. Per loro, deve sembrare davvero un viaggio sulla Luna.
Pubblicato originariamente su Rockol
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