«Tua madre non approverebbe il modo in cui la mia mi ha cresciuta», canta spiegando al fidanzato la propria irriducibile diversità. Mitski Miyawaki è mezza americana e mezza giapponese. A causa del lavoro del padre ha vissuto in una dozzina di Paesi tra cui Giappone, Malesia, Repubblica Democratica del Congo, Cina, Turchia. Non stupisce che metta il tema dell’identità al centro del suo secondo album – il quarto, contando i due assemblati come progetti di fine anno quando studiava composizione al Purchase, New York. Quando suona è ombrosa e umorale, spigolosa e inquieta. A volte fa gracchiare le chitarre alla maniera dei rocker anni ’90, a volte crea trame chitarristiche tipo St. Vincent, e qualche altra volta suona come una punkettara amante del fai-da-te che adora le vecchie melodie pop. Canta l’impossibilità d’essere felice e l’inevitabilità di provarci. Nel disco, immagina la felicità come un ragazzo che ti entra in casa con i biscottini per il tè, ti porta a letto e quando ha finito scappa di nascosto mentre sei in bagno. Ma come dice Fireworks, «un giorno questa tristezza si fossilizzerà e scorderò come si fa a piangere». Nell’attesa, se trovate una foto in cui sorride avvisateci.
Un altro disco che gira attorno al concetto d’identità. Adia Victoria è una figlia del Sud. Ora vive a Nashville, ma mamma (di Philadelphia) e papà (di Trinidad) l’hanno cresciuta in South Carolina secondo i precetti della Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno col risultato che ora lei canta cose tipo: «I don’t know nothing about Southern belles, but I can tell you something about Southern hell». Qualcuno ha descritto la sua musica come blues gotico, Vogue l’ha inclusa fra le «bellezze che rispondono al grido di battaglia dell’afropunk», qualunque cosa significhi. Ama leggere Flannery O’Connor e Toni Morrison e intanto prende il rock-blues e lo sovverte con energia da garage rocker per scrivere canzoni in cui dice addio alla confusione dei suoi vent’anni. Usa fraseggi originali per cantare di crisi esistenziali e amori conflittuali, raccontare cosa si prova a sentirsi intrappolata, fare l’elenco delle cose che la madre non le ha detto. Il titolo viene da un passo di Incidents in the Life of a Slave Girl di Harriet Ann Jacobs, che Adia considera un esempio di determinazione e istinto di autoconservazione.
Anche Leyla McCalla canta la propria identità divisa in due e la resistenza a farsi assimilare da una cultura aliena. È nata a New York, è cresciuta nel New Jersey, ha passato un paio d’anni ad Accra. Ma soprattutto ha discendenze haitiane che ha riscoperto trasferendosi a New Orleans, e tutto si tiene nel suo album che parte con una canzone ispirata ai boat people e finisce con un traditional dedicato a uno spirito del voodoo. Quasi la si detesta per il talento che ha. Ha studiato violoncello classico, ma suona pure chitarra e banjo tenore. Canta in inglese, francese, creolo haitiano. E dopo aver messo in musica Langston Hughes, nel secondo album riconduce tutto a un folk piuttosto chic, dove si fa uso di strumenti acustici senza alcuna ansia tradizionalista. Dentro ci sono la Louisiana e Haiti, il jazz e la tradizione creola, e musicisti di una bravura che non ammette esibizionismi. Pure gli ospiti sono perfetti, da Marc Ribot a Rhiannon Giddens, altro fenomeno che ha suonato con lei nei Carolina Chocolate Drops, la band che ha insegnato al mondo che non bisogna essere bianchi per suonare musica old time.
Pubblicato originariamente su IL
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