Ci sono il ricordo di un amico morto e una signora di Taiwan vestita di verde lime. Ci sono richiami alla cosmologia buddista e il ritratto di un seduttore fuori tempo massimo. Ci sono accordi “rubati” a Jonathan Richman ed esotismi in quantità. C’è quell’aria da storiella sussurrata fra amici che Devendra Banhart sa evocare come pochi, mettendoci un pizzico d’incanto. Al suo nono album, il cantautore americano überfreak racconta piccole storie, a volte minuscole. O al contrario, mette assieme riflessioni disordinate su argomenti misticheggianti, sempre però con l’aria di chi attraversa il mondo con leggerezza. Affiancato come nel precedente Mala da Noah Georgeson e Josiah Steinbrick che lo aiutano a orchestrare arrangiamenti pieni di particolari deliziosi, Devendra Banhart guarda ancora una volta al Brasile e pure all’Asia, mischia poesia e senso dell’umorismo, raffinatezze sonore e pose musicali casual, in una specie di poetica sballata del quotidiano.
Si parte con un folk per l’amico Asa Ferry dei Kind Hearts and Coronets scomparso un anno fa, un arpeggio malinconico, un sintetizzatore che mima un flauto, rumori di fondo (Middle Names) e si continua con una specie di psichedelia lieve e punteggiata dal suono della marimba (Good Times Charlie). Il Jon di Jon Lends a Hand è Jonathan Richman da cui Banhart prende in prestito gli accordi e ci scrive una canzone su, nel senso che imbastisce un pezzo sul fatto di avere rubato quegli accordi «solo per descrivere quant’è bella oggi» con tanto di svolazzi evocativi di koto. Quest’ultima è una sorta di cetra giapponese maneggiata da Georgeson che torna in altre canzoni tra cui Fancy Man, dove concorre a un’atmosfera di giocoso esotismo.
Il resto dell’album è semplice e incantato e lievemente bizzarro. I tratti musicali sono semplici, eppure danno vita a un linguaggio personale. Dice Devendra, a proposito di quella specie di canzone d’amore che è Theme for a Taiwanese Woman in Lime Green, che l’amico chitarrista Rodrigo Amarante non gli ha ancora spiegato come si fa a suonare come si deve bossanova e samba. Perciò lui continua a farlo a modo suo, offrendone una versione sgangherata. Effettivamente Ape in Pink Marble illustra il talento peculiare di Banhart. I suoi limiti offrono possibilità. La sua incapacità di suonare la chitarra in modo tecnicamente virtuoso e il suo limitato range canoro lo hanno spinto a sviluppare un linguaggio sonoro tutto suo, sballato e personale, che gli permette di passare dal misticismo orientale all’osservazione delle vite degli altri all’idea della musica come gioco. E nei tre quarti d’ora di Ape in Pink Marble lo fa bene, meglio che in altri suoi dischi.
I grandi talenti musicali sono altri, e può darsi pure che troviate Banhart noioso o peggio ancora irritante. Ma è uno che costruisce mondi, è un buon intrattenitore, sa raccontare storie basate sull’osservazione del prossimo. Come quella di estrema solitudine di Linda, con un sintetizzatore che borbotta malinconico come un trombone. O come quella di Souvenirs, nata dall’osservazione dell’appuntamento di una coppia, lei su una sedia a rotelle e lui che la spinge. A Banhart basta quest’immagine per immaginare il resto: i due che s’innamorano, le persone che li giudicano, loro che vanno avanti per la loro strada, comunque felici. E poi, qualche anno dopo, eccoli in vacanza a Hollywood: un tempo non avrebbero mai osato tanto, e invece vanno a ballare e lui fa roteare la sedia a rotelle su sé stessa e se ne fregano degli sguardi della gente. E tutto è raccontato con poche note di chitarra e attorno le vibrazioni flebili di un sintetizzatore, suoni dolci di piano elettrico, piccoli crash dei piatti della batteria. Sarà un freak, il nostro Devendra, ma quanto è sentimentale a volte?
Pubblicato originariamente su Rockol
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