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Tutto Nick Cave in due giorni e 3D

nick-cave-one-more-time-with-feelingNella scena più forte del film di Andrew Dominik su Nick Cave One More Time with Feeling, la moglie Susie Bick regge un quadro che il figlio Arthur dipinse quando aveva 5 anni. Raffigura il luogo in cui il ragazzo sarebbe morto dieci anni dopo, precipitando dalla scogliera di Ovingdean, a Brighton. Lei, così superstiziosa, non si dà pace per avere scelto ai tempi una cornice nera. Sta in piedi, elegante e bellissima e fragile. Poggia il quadro sul tavolo e intanto lotta per trattenere le lacrime. Il marito sembra volere allungare la mano, poi la ritrae. Glielo leggi in faccia che vorrebbe far qualcosa, dire una parola, compiere un gesto, ma nulla può arginare quel dolore. Di fronte alla verità di questa scena svanisce l’idea che l’ultimo album di Cave Skeleton Tree racconti la morte del ragazzo, che sia una specie di atto terapeutico. «Non penso che il film o le canzoni l’abbiano aiutato a lenire il dolore», ha detto Dominik. L’enorme buco creato dalla morte di un figlio non lo riempi con un disco. Pensarlo è consolatorio. Di fronte al nulla, la musica s’affanna a trovare le parole, e poi tace.

Questo ci dice One More Time with Feeling, nelle sale italiane il 27 e 28 settembre, forse la prima pellicola della storia in 3D in bianco e nero. Ci dice che Skeleton Tree non è un diario. Intanto spiega che l’album è stato scritto prima della tragedia avvenuta nel luglio 2015, tanto da spingere il cantante e la moglie a parlare di carattere profetico delle canzoni incentrate su morte, perdita, amore, dolore, su una caduta dal cielo e su domande a Dio che rimangono inevase (ciò non toglie che qualche cambiamento potrebbe essere stato fatto successivamente). Testi che prima dell’incidente sembravano spazzatura, questo dice Cave, improvvisamente risplendono di verità e bellezza. E poi il film spazza via la retorica sull’arte che salva e consola che abbiamo dispensato noialtri critici, giornalisti e blogger dopo la pubblicazione di Skeleton Tree, una mano sul cuore e gli occhi a compulsare i testi alla ricerca di riferimenti alla morte di un ragazzo, in un grande esercizio collettivo di empatia. Per scrivere c’è bisogno di spazio, afferma Cave, proprio lo spazio che gli eventi traumatici occupano con violenza. Quand’è così estremo e definitivo, il dolore non alimenta il processo creativo. Lo danneggia.

L’unica connessione fra la morte del figlio e l’album che Cave ammette non riguarda i testi, ma la musica. Lo stato emotivo in cui è stato inciso Skeleton Tree ha fornito al cantante e al suo braccio destro Warren Ellis, anima musicale dell’album, la sicurezza necessaria per lasciare le canzoni così com’erano, scheletriche e crude, per certi versi estreme, flussi di coscienza sotto cui i Bad Seeds stendono loop dai colori ora scuri, ora eterei. Skeleton Tree è musica nata dal caso, afferma Ellis. Cave si dice convinto che la vita non segua i percorsi lineari di una strofa e di un ritornello, che non abbia la logica narrativa delle vecchie canzoni. Ecco perché la sua musica sta cambiando. «Le canzoni» dice «offrono la comprensione di cose di cui non siamo consci». E allora, eccolo seduto al pianoforte mentre intona Jesus Alone e intanto cerca gli accordi, come un uomo che entra in una stanza al buio e procede a tentoni per non inciampare. Poi desiste: chi ha bisogno di accordi di pianoforte in una canzone improvvisata come quella? È la filosofia produttiva di Ellis, ereditata dall’hip-hop e sperimentata nelle colonne sonore e nel precedente Push the Sky Away: scrivere partendo da riff, frasi sonore, loop. Liberarsi da ogni logica razionale e improvvisare nella speranza che dal caos nasca qualcosa di buono, che un po’ di bellezza emerga dalla confusione. Rifiutando la forma-canzone tradizionale e la narrazione lineare, Skeleton Tree è un lavoro perfettamente calato in questo tempo di album-flusso che fanno a meno di grandi ritornelli.

Il 3D in bianco e nero è una strana miscela d’antico e moderno, un tentativo di evocare l’effetto dei vecchi proiettori stereopticon. È una scelta stilistica che rende più suggestive le immagini girate negli Air Studios di Londra, con Nick Cave al microfono e i Bad Seeds tutti attorno. Ma a parte il frammento dedicato a Jesus Alone, One More Time with Feeling non documenta la registrazione dell’album, ma la rimette in scena per confrontarla con il vuoto a cui Cave è attaccato come un elastico: ci ritorna sempre, per quanto si sforzi di allontanarsene. È un film sul processo creativo, sul lutto, sull’impossibilità di dare un senso alla morte in un mondo in cui «ci hanno raccontato che gli Dei sarebbero vissuti più a lungo di noi, ma mentivano». C’è una forte tensione fra la lucidità delle confessioni dell’uomo diventato improvvisamente oggetto di sguardi compassionevoli e il carattere immaginifico e incorporeo delle canzoni, fra la scelta di mettersi di fronte a una camera e l’impossibilità di raccontare il proprio dolore e ridurre una tragedia a frasi di circostanza. «Non so che cosa sto facendo», ammette Nick Cave verso la fine del film. Una cosa la sa. Lui, che ha la fama d’essere scontroso e impenetrabile, prima della morte del figlio non avrebbe mai girato un film del genere. One More Time with Feeling è un tentativo di dire l’indicibile.

 

 

Pubblicato originariamente su IL

 

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