È una delle più divertenti, scapigliate, vanagloriose storie rock’n’roll che vedrete quest’anno al cinema. Come ogni racconto ispirazionale che si rispetti, Oasis: Supersonic narra l’ascesa dei lads di Manchester da teste calde senza grandi talenti a idoli delle folle e persino simboli di un’epoca tutta. Lo fa attraverso immagini di repertorio spettacolari oppure private, nuove interviste audio e persino scene animate, una scelta appropriata per due musicisti-fratelli che somigliano a cartoon. Sono le comiche rock’n’roll e Liam & Noel Gallagher, un po’ Caino & Abele e un po’ Tom & Jerry con la frangia, s’amano e odiano, si tirano in testa bidoni della spazzatura e mazze da cricket, ma ne escono indenni, pronti a una nuove bravate, a far gestacci alle telecamere o a sfanculare un bassista troppo molle. Grazie al cielo, per una volta non è tragedia. È commedia.
Dentro a Supersonic c’è tutto quello che v’aspettate da un documentario sull’ascesa veloce e miracolosa dei due rocker e dei loro amichetti comprimari: le origini proletarie, di cui andar fieri; il padre bastardo e latitante, ma pronto a batter cassa quando i figlioli diventano abbienti e famosi; le aspirazioni basiche tipo alcol-successo-droga-successo-donne-successo-cameratismo (successo l’ho già detto?). E poi, l’importanza di avere un popolo sterminato che ti legittima, e sballi ravvicinati d’ogni tipo, e rapporti disfunzionali punteggiati da scazzottate manco fossimo su un ring. In più, una buona dose di nostalgia per quando si era tutti più felici e la colonna sonora della nostra vita era più cazzuta. I fratelli Gallagher aggiungono di loro una buona dose d’arroganza e inglesità, e fortunatamente un bel po’ di senso dell’umorismo che rende il film meravigliosamente lieve e spassoso.
Diretto da Mat Whitecross, che si è già misurato con Stone Roses e Ian Dury ed è ora impegnato con i Coldplay (un abbraccio forte), prodotto fra gli altri dal regista di Amy Asif Kapadia, Supersonic è un documentario ufficiale, di cui Noel e Liam sono protagonisti assoluti, narratori (tramite interviste separate, naturalmente) e produttori esecutivi. E indovinate un po’? È sfacciatamente celebrativo e per 120 minuti ripete la nozione base, come se il pubblico fosse un po’ tonto: gli Oasis sono stati il più grande gruppo esistente, una cosetta così. «Best band on the planet: it’s a fact», dice a un certo punto Liam con la sicurezza di uno che ti spiega che due più due fa quattro. Com’è come non è, il documentario non si sofferma su aspetti all’epoca chiacchierati e controversi come la rivalità con i Blur consumata a brutte parole (tranquilli, niente di cui oggi un utente medio di Facebook debba vergognarsi), gli elogi a Tony Blair che fanno poco rock’n’roll, l’atmosfera da Cool Britannia che si respirava in quegli anni. Non si pronuncia neanche la formuletta brit pop (molto bene). Zero contesto e zero influenze, a parte naturalmente i Beatles, santini in the sky with diamonds: a dar retta al film, la musica degli Oasis è nata nel nulla per poi puntare al toppermost of the poppermost. C’è però l’epifania miracolosa. Ai tempi della scuola, a Liam la musica non interessa granché, ma visto che è un giovanotto strafottente e rissoso un bel giorno qualcuno gli dà una martellata in testa. Sangue dappertutto, neuroni rimescolati. Da quel momento our kid è impossessato dal demone della musica. Ci crediamo, ciecamente.
«Gli Oasis erano come una cazzo di Ferrari», dice con la consueta eleganza il cantante. «Un’auto bellissima che però va in testacoda quando la guidi troppo forte». Quel che rende speciale il gruppo, e cioè il rapporto tra i fratelli, è anche ciò che lo distrugge. Si parla candidamente di droghe, di baruffe leggendarie, dell’idea di sbattere Sting e Phil Collins fuori dalle classifiche, del ruolo maligno dei tabloid e dei cattivoni dell’industria discografica che rovinano tutto con quella cosa sporca lì, i soldi. I due Gallagher volano talmente alto che il fratello Paul non riesce a farsi dare un invito per i concerti (non mi lamenterò più quando non mi daranno un accredito). Le ricerche negli archivi hanno portato alla luce materiale interessante, specie quello relativo agli inizi: video casalinghi anche della sala prove dove sono appesi il poster dei Beatles e una riproduzione della Union Jack, spezzoni di concerti ed esibizioni all around the world, interviste d’archivio, il carosello mediatico che gli Oasis suscitavano all’epoca. E anche pagine personali, e parecchio: il racconto di Caino e Abele giovanissimi visti da mamma Peggy, che fanno quasi tenerezza, e poi la fuga dal padre manesco. Le botte ricevute da Noel lo spingono a rifugiarsi nel suo mondo fatto di accordi di chitarra – sempre quelli, non si va lontano. Saranno pure grandi cazzoni, ma la loro musica nasce dal tormento, ci rassicura Supersonic.
Il montaggio furbetto delle nuove interviste e dei filmati d’inizio anni ’90 ti fanno sembrare d’essere lì, il giorno in cui Noel entra nel gruppo del fratello minore – ovviamente sulla faccenda ci sono due versioni radicalmente diverse – o in quello in cui Alan McGee della Creation offre a quella band sgangherata un contratto discografico. Ci si stupisce, quasi, a vedere quanto materiale video esiste dei Gallagher prima del successo. Qualcuno evidentemente c’era e pensava che valesse la pena filmare quei momenti: dal famigerato concerto al Whisky a Go Go di Los Angeles andato male perché i ragazzi avevano scambiato cristalli di metanfetamina per cocaina – e vabbeh, succede – al primo tour in Giappone, con gli inglesi accolti che neanche i Beatles. Ovviamente tutto va soppesato al netto delle balle sparate dall’hooligan Liam e da boccalarga Noel. Che però pare sincero nel raccontare lo spirito me-ne-frego della band a metà anni ’90 ed è lucidissimo quando afferma che prima di andare in America era preoccupato: lì con l’arroganza non vai lontano, dice, devi anche saper suonare. Ecco perché la Britannia era tanto Cool.
Siccome il finale vero è brutto forte, il regista e i Gallagher ne inventano uno più bello: i due concerti di Knebworth del 1996 di fronte a un totale di 250.000 spettatori, che effettivamente rappresentano uno dei picchi della carriera degli Oasis. Dopo succede un gran casino che non è bene esporre in pubblico, o forse semplicemente noioso o complicato, e così Supersonic si ferma lì e non dedica spazio alcuno al post 1996 – non cita nemmeno l’esistenza del terzo lavoro Be Here Now, che in fondo è l’album che ha venduto più copie nella storia della discografia britannica nel primo giorno di pubblicazione, men che meno di quelli successivi, puff, spariti nel nulla. Supersonic è L’ascesa e caduta degli Oasis, senza la caduta. Noel giustifica indirettamente la scelta di Knebworth come punto d’approdo affermando che quello è stato «l’ultimo grande raduno prima di internet» e spiegandoci quanto eravamo felici allora e quanto siamo miserabili oggi. Ovviamente non è vero, ma se c’è una cosa in cui gli Oasis sono campioni è l’automitizzazione. Lì davvero non li batte nessuno.
Pubblicato originariamente su Rockol
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