Solo uno come Stephin Merritt poteva realizzare quest’idea semplice e brillante, suggeritagli dal presidente della Nonesuch: scrivere una canzone per ogni anno di vita, pagine di diario, quadretti di vita abbozzati con il senno di poi. Superata la soglia dei 50 anni, Merritt ha inciso altrettante canzoni e le ha incluse in un album quintuplo che ricorda per ambizione e progettualità un altro disco memorabile dei Magnetic Fields, il triplo 69 Love Songs di diciotto anni fa. Merritt ne esce vincitore, rafforza lo status di freak amante dell’epica e d’artista inclassificabile, abbozza un’autobiografia minimale e frammentata, musicata in modo da mediare ricchezza timbrica e semplicità naïf.
Li abbiamo contati: gli strumenti suonati da Merritt in 50 Song Memoir sono più di cento, a cui si aggiungono quelli imbracciati da un’altra decina di musicisti. Anche se Merritt non ha fatto sforzi particolari per ambientare musicalmente le canzoni nell’anno che raccontano, qualche connessione c’è: si trovano piccoli tocchi naïf nei primissimi pezzi dedicati all’infanzia, echi di disco in Hustle ’76, di synth pop nei brani anni ’80 – e del resto, «I’m a New Waver», dice Merritt nella lunga intervista con Daniel Handler alias Lemony Snicket inclusa nel libretto del CD dove l’opera è commentata quasi canzone per canzone. A dispetto della formidabile quantità di strumenti usati, la produzione è volutamente scarna, essenziale, roba da registrazione casalinga. Semplici canzoni per ukulele, suoni cupi e sintetizzati, colori fantasiosi, poche chitarre elettriche, echi di folk psichedelico, reggae, ballate: c’è di tutto un po’ in questo indie pop da camera.
50 Song Memoir va letto, oltre che ascoltato: sentirlo senza testi, inclusi nel libretto, toglie metà del piacere. Impossibile ascoltarlo distrattamente, inconcepibile sentirlo tutto di fila: sono due ore e mezzo di musica, i Magnetic Fields lo stanno suonando negli Stati Uniti nell’arco di due concerti in due giorni consecutivi nella stessa città, un’esperienza a dir poco curiosa. La cura infusa nell’arrangiamento di ogni singola canzone si riflette nelle scelte linguistiche e nell’attenzione messa nella scrittura dei testi, brillanti e pieni di verve: ci sono canzoni bruttine, sì, ma non canzoni improvvisate per far numero. Merritt avrebbe potuto selezionare i pezzi migliori e riunirli in un solo CD o in un doppio, ne sarebbe uscito un disco più convenzionale e denso, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Qui conta la quantità, non solo la qualità: non è una raccolta di canzoni indimenticabili prese singolarmente – e del resto, chi mai potrebbe scrivere quattro dozzine di capolavori? –, è un disco che affascina per l’effetto complessivo.
Gioie, umorismo nero, ricordi d’infanzia, grandi paure, disastri da riderci sopra, malattie, osservazioni asciutte, piccole vendette, tanta eccentricità: la vita di Stephin Merritt, letta attraverso queste cinquanta canzoni, è un’avventura senza un eroe. Il tono è spesso agrodolce, mai sopra le righe, la narrazione procede in modo candido, lontana da ogni melodramma. Si comincia con l’infanzia beatnik, ricordi del gatto, del funerale di Judy Garland, di uno show dei Jefferson Airplane in cui parlando del Vietnam Grace Slick dice che «uccidono i bambini laggiù» e il piccolo Merritt pensa che si stia riferendo alla sala da concerto. In My Mama Ain’t la madre viene descritta come una freak che crede in qualunque cosa, mentre Life Ain’t All Bad è un attacco inacidito a un fidanzato della donna, un vero bastardo – che sollievo però: «Na na na, sei morto adesso». Blizzard of ’78 contiene il racconto del tentativo precoce di formare una band in una comune del Vermont, London by Jetpack dice della prima visita nella capitale inglese, col giovane Stephin al centro del mondo eppure incosciente del fenomeno del New Romantic. Quattro anni più tardi, eccolo al Danceteria!, il locale di Manhattan dove vede Nick Cave e Lydia Lunch, gli Einstürzende Neubauten. «La cultura non è per i deboli di cuore», dice.
Verso la metà del viaggio il tono si fa più cupo, arriva l’Aids, ma «ci aspettavano la guerra nucleare, perché mai avremmo dovuto prendere precauzioni?». Weird Diseases fa il conto delle malattie di Merritt, compresa l’iperacusia, un aumento della sensibilità uditiva invalidante per un musicista, Me and Fred and Dave and Ted racconta una convivenza poliamorosa. Vi sono passaggi buffi e altri molto personali, come il resoconto di una notte di sesso con una ex, un appello a restare fedele al proprio bar, la storia dell’accusa di razzismo. Si finisce prima col tono riflessivo di I Wish I Had Pictures, che in qualche modo abbraccia e riassume tutto il progetto gettando uno sguardo sugli eventi passati e le persone amate con un pizzico di nostalgia altrove assente, e poi con Somebody’s Fetish. È un happy ending sul confine fra amore e feticismo che, dopo tanti brani personali, coinvolge tutti noi, coi nostri vizi e bizzarrie. Qualcuno dovrebbe girarci un film, su queste canzoni.
Pubblicato originariamente su Rockol
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