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La prima volta in cui l’America ascoltò sé stessa

Un microfono era collegato a un incisore azionato da un sistema di ingranaggi regolati da un peso. Dopo tre minuti di registrazione, il peso arrivavano al pavimento, interrompendo l’incisione. È l’apparecchiatura utilizzata negli anni ’20 per effettuare alcune fra le prime incisioni. Riassemblata dall’ingegnere del suono Nicholas Bergh, è stata utilizzata per registrare nuove performance di Beck, Avett Brothers, Alabama Shakes, Elton John, Rhiannon Giddens, Willie Nelson, Stephen Stills. Dal vivo, in tre minuti, senza alcuna sovraincisione. Dietro al progetto c’è Jack White, e chi altri, che con il produttore T Bone Burnett s’è preso la briga di organizzare le session: due dozzine di artisti contemporanei alle prese con una tecnica d’incisione usata da cent’anni fa e con canzoni d’epoca (ma non solo). Può sembrare una bizzarria, come quella che ha fatto Neil Young quando s’è fatto chiudere nella cabina della Third Man Records per registrare un disco-cartolina con il Voice-O-Graph, ma American Epic è qualcosa di più: è un omaggio a un grande processo di democratizzazione della musica americana, alla «prima volta in cui l’America ascoltò sé stessa».

American Epic è anzitutto un documentario sulle origini della discografia negli Stati Uniti andato in onda su PBS e BBC. È un viaggio indietro nel tempo, all’epoca in cui le case discografiche americane cominciarono a girare il paese per collezionare registrazioni. Per la prima volta nella storia, bluesman del Mississippi e violinisti degli Appalachi ebbero la possibilità di farsi ascoltare da un pubblico più vasto. E con loro donne, minoranze, persino bambini. È quella che il produttore esecutivo Robert Redford chiama «America’s greatest untold story». Parte del documentario è costituito dalle session contenute in questo doppio album in cui gli artisti si misurano con traditional o pezzi classici, re-immaginandoli. Data la tecnica di registrazione impiegata, il suono è quello che vi aspettate da incisioni anni ’20 e ’30: ovattato, senza grande dinamica, con la tendenza alla saturazione. Eppure a queste registrazioni – alle migliori, per lo meno – non manca nulla: hanno feeling, musicalità, espressività.

Jack White gioca in casa. Oltre a produrre le session e fornire alcuni musicisti della sua band a vari artisti, è delizioso con Lillie Mae Rische in Matrimonial Intentions («Se non hai intenzioni matrimoniali, tieni a posto le mani») e nel valzer Mama’s Angel Child del misconosciuto Sweet Papa Stovepipe, oltre a improvvisare con Elton John un pezzo intitolato Two Fingers of Whisky, su testo di Bernie Taupin. Anche Beck porta un pezzo autografo ed esplora con successo i territori del gospel in Fourteen Rivers, Fourteen Floods. Brittany Howard e gli Alabama Shakes offrono un’intensa, indisciplinata versione di Killer Diller Blues di Memphis Minnie piena di stop-and-go. La maggior parte dei titoli non sono noti, anche se Pokey LaFarge e la sua band con la clarinettista Chloe Feoranzo affrontano egregiamente la leggendaria St. Louis Blues di W. C. Handy, mentre Taj Mahal porta a casa High Water Everywhere di Charley Patton e Stephen Stills si misura con il Robert Johnson di Come On in My Kitchen, sbiancandolo. Il rapper Nas mostra di possedere un gran feeling in On the Road Again della Memphis Jug Band, che vive anche degli interventi corali e di certi brevi unisoni strumentali della formazione di Jack White.

Fra le belle sorprese ci sono gli Avett Brothers con il loro fervore lievemente sgangherato. La coppia rodata formata da Edie Brickell e dall’attore e banjoista Steve Martin affronta il traditional The Coo Coo Bird, Willie Nelson e Merle Haggard fanno centro sia con l’originale The Only Man Wilder Than Me che con la vecchia Old Fashioned Love. Voci come quella di Ashley Monroe o di Rhiannon Giddens sono perfette per il progetto e lo stesso può essere detto del giovane Jerron “Blind Boy” Paxton che offre una convincente versione di Candy Man, dal repertorio di Blind Gary Davis. La diversità culturale dell’esperienza di registrazione di cent’anni fa rivive nella presenza dei Los Lobos recuperano il traditional del XIX secolo El cascabel, di Ana Gabriel (con Van Dyke Parks all’accordion), degli Hawaiians, dei Lost Bayou Ramblers. È affascinare sentire questi artisti non solo alle prese con vecchi pezzi, ma anche costretti a misurarsi con i limiti di una vecchia tecnica di registrazione che ne riscrive le regole dell’espressività.

Il disco fa parte di un più ampio progetto di stampo educational che comprende la colonna sonora del documentario (American Epic: The Soundtrack), un cofanetto di cinque CD contenente 100 vecchi brani rimasterizzati con un mix di apparecchi moderni e vintage (American Epic: The Collection), varie raccolte tematiche con materiali d’epoca (blues, country, monografici) e un libro (American Epic: The First Time America Heard Itself). Non è un’operazione retromaniaca. American Epic non ci dice che quel metodo d’incisione tanto elementare, primitivo e limitante è migliore di quello moderno. Ci racconta, piuttosto, l’importanza delle tecniche di registrazione. Ci spiega che l’espressività non è funzione solo del talento, ma anche dei mezzi che si hanno a disposizione. Ascoltare in questo contesto artisti che siamo abituati a sentire nelle frequenza e con la dinamica sonora delle moderne registrazioni ci ricorda che c’è un motivo se negli anni ’20 abbiamo avuto Bessie Smith, nei ’70 i Led Zeppelin e nei 2000 i Radiohead: non solo per le loro abilità, ma anche per la capacità di interpretare lo stato dell’arte della registrazione. L’evoluzione tecnologica ha cambiato anno dopo anno, decennio dopo decennio la definizione di talento.

 

 

Pubblicato originariamente su Rockol

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