Riusciremo mai a tornare indietro? C’è una via di fuga dal sovraccarico di contenuti e informazioni e merci in cui viviamo? Ci illudiamo di controllarlo, questo flusso infinito, e invece ne siamo vittime. Gli Arcade Fire lo suggeriscono nella breve introduzione del loro quinto album. Ci si aspetta che il crescendo che chiude il pezzo sfoci in un picco drammatico. E invece arriva la frase di tastiera di Everything Now, una cosa alla Abba periodo Dancing Queen con in più un breve riff di flauto preso da The Coffee-Cola Song di Francis Bebey. «Siamo dancers in the dark», ci ha detto Will Butler e questo è forse il senso di un disco che sembra fatto apposta per ballare sul caos in cui viviamo.
Mettiamola così: se Reflektor era l’Achtung Baby della band canadese, l’album in cui un gruppo di presunti puristi che propagandava una visione virtuosa in un mondo corrotto abbracciava la cultura popolare sporcandosi le mani, Everything Now è il loro Pop. È facile, immediato, colorato, ballabile, a tratti kitsch. Come il disco del 1997 degli U2, è un prodotto piazzato sugli scaffali dei supermercati per criticare la cultura pop, incarnandola. Lo fa con la complicità dei produttori Thomas Bangalter (Daft Punk), Steve Mackey (Pulp), Geoff Barrow (Portishead), Markus Dravs.
Primo album per una major, lanciato da una campagna su Twitter basata su interazioni ironiche con brand globali (e con un finto sito modello Stereogum attribuito al gruppo), Everything Now è stato anticipato da quattro pezzi che ben ne descrivono il carattere dance-pop. Non è una sorpresa dopo certe canzoni di Reflektor e dopo Sprawl II (Mountain Beyond Mountains), il pezzo di The Suburbs interpretato da Régine Chassagne. Stupisce comunque il numero di canzoni che basano buona parte dell’appeal sul ritmo. Quella che viene immediatamente dopo Everything Now s’intitola Signs of Life, ricorda vagamente la parte quasi-rap di Rapture dei Blondie e si basa su uno dei capisaldi dell’album: il concetto di ripetizione, che torna in una specie di dub-rocksteady chiamato Chemistry che ha il difetto di durare un minuto e mezzo di troppo (su un totale di tre e mezzo).
L’altro concetto chiave del disco è la contraddizione fra significati e significanti. Come ha detto Will Butler, «c’è qualcosa di bello nel combinare gli opposti. Ai tempi della scuola amavo il modo in cui T. S. Eliot mischiava luce e ombra, l’assurdo e il sacro». In Creature Comfort convivono un testo su suicidio e autolesionismo declamato da Win Butler – più di un commentatore ha tirato in ballo lo stile canoro di David Byrne in Once in a Lifetime dei Talking Heads – e una musica che sembra un mash-up dei Cure più pop. La frase chiave è «Dio, rendimi famosa / E se non ci riesci, fai che sia indolore». Ce n’è un’altra che fa pensare a una storia dolosamente reale: «Lei m’ha detto che è arrivata a tanto così dal farlo / Ha riempito la vasca da bagno e ha messo su il nostro primo album».
È un’immagine, quella del tentato suicidio nella vasca, che torna in Good God Damn. È uno dei pezzi chiave della parte finale dell’album, che lo risolleva dopo una sezione centrale un po’ opaca. Win Butler cerca il suo registro canoro più alto, fa suonare i suoi come una versione dei Clash a cui è stata succhiata via ogni vitalità e intanto canta che «Quando la vita si fa dura / Metti su il tuo disco preferito / E riempi la vasca da bagno». Quel «good God damn» all’inizio della canzone suona come un’imprecazione, più in là con l’aggiunta di una virgola riappare come un segnale di speranza: «E se, accidenti, esistesse un buon Dio?».
Il tema del sovraccarico informativo torna in Infinite Content”, anzi in Infinite Content e Infinite_Content. È la stessa canzone in due arrangiamenti diversi, il primo in chiave rock, il secondo country, un piccolo divertissement basato sul gioco di parole fra «infinite content» e «infinitely content», il contenuto infinito che ci rende infinitamente appagati (si fa per dire). L’idea di un album ciclico, un loop dal contenuto infinito, appunto, torna nell’idea di piazzare due frammenti titolati Everything_Now (Continued) e Everything Now (Continued) all’inizio e alla fine del disco. Prima, però, arrivano il singolo Electric Blue, cantato da Chassagne con la voce trattata fino a trasformarla in una parodia delle cantanti soul e disco anni ’70, il coretto che fa molto Abba di Put Your Money on Me e un pezzo con Daniel Lanois alla chitarra lap steel. S’intitola We Don’t Deserve Love e rappresenta i pensieri notturni di un peccatore, spazzati via da un coretto leggero e candido, eppure liberatorio.
In fondo a questi 47 minuti si sente la mancanza dell’intensità, dell’ambizione, dell’immaginazione, del senso d’avventura tipici del gruppo. Manca, pure, la sensazione trasmessa da certi vecchi dischi degli Arcade Fire che ti facevano sentire parte di qualcosa di speciale, di unico. Il fascino di Everything Now sta invece nel carattere volutamente contraddittorio, nell’idea – non nuova, ma sempre efficace – di evocare temi pesanti con leggerezza, di cantare la morte come gli Abba cantavano l’amore. Gli Arcade Fire sono moralisti che usano il pop per parlarci di materialismo, dolore, caos. Delle enormi possibilità e dei grandi pericoli dell’epoca in cui viviamo.
Pubblicato originariamente su Rockol
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Mah, sarà … questo album non mi attira. Comunque ha scritto un bel articolo, completo nei contenuti che strutturano il disco. Forse è troppo ambizioso e cerebrale, il disco. Troppo marketing.
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