Bordoni minacciosi saturano l’aria, sintetizzatori analogici dialogano con un quartetto d’archi, note di trombone s’alzano da sequenze ritmiche brutali, un vecchio organo poggia su tessiture digitali, una voce filtrata dal vocoder intona una preghiera. La stranezza si chiama Planetarium, è un progetto di Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly e James McAlister, un concept dedicato ai corpi celesti del nostro sistema solare. Commissionato dal Muziekgebouw di Eindhoven, rappresentato per la prima volta nel 2013 e rimaneggiato per questa incisione che esce il 9 giugno, il ciclo di canzoni tiene assieme musica contemporanea, rock ed elettronica come se fosse la cosa più naturale del mondo. Nico Muhly, compositore under 40 che fa parte della generazione per la quale «il primo accordo di Music in 12 Parts di Philip Glass è un momento davvero davvero davvero emozionante», ci mette gli arrangiamenti. Colori e rifiniture sono aggiunte da Dessner, che non è solo il chitarrista dei National, ma anche uno che riceve commissioni dall’Ensemble Intercontemporain e dal Kronos Quartet. E no, il risultato non somiglia neanche un po’ a I pianeti di Gustav Holst, né ai suoni delle sfere immaginati da tanti musicisti in passato e nemmeno alle musiche per conferenze scientifiche dei nostri Deproducers. Le cose sono più complicate, di mezzo ci sono Stevens e la sua fede in Dio. Nella sua personale cosmogonia, i pianeti rappresentano pulsioni decisamente terrene. Stevens attinge abbondantemente alla mitologia greco-romana, usa Urano per raccontare un’evirazione e un incesto, evoca Venere per dire di un’esperienza sessuale consumata in un campo estivo metodista, canta di Marte non come pianeta, ma come Dio della guerra. È il conflitto fra il Bene e il Male proiettato sulla volta celeste.
Una decina d’anni fa si cominciò a parlare di musica indie classical. Da una parte c’erano musicisti pop con una gran voglia di misurarsi con l’arte della composizione. Sufjan Stevens dedicava una specie di sinfonia alla Brooklyn-Queens Expressway, Dave Longstreth dei Dirty Projectors assemblava al computer una glitch opera mettendo a frutto gli studi di musica a Yale. Dall’altra parte c’erano musicisti come Nico Muhly o Judd Greenstein: sputati fuori dal sistema della formazione musicale accademica, anelavano alla libertà creativa della popular music. Nel 2007 il regista Stephen S. Taylor ne raccontò un manipolo nel documentario The End of New Music, un road movie per musicisti cresciuti ascoltando Louis Andriessen. Tutti, chitarristi e violinisti, poppettari e strumentisti “colti” erano cresciuti nell’epoca di internet. La musica contemporanea non era una stranezza da cercare al piano interrato di un negozio di dischi, ma una risorsa accessibile grazie a pochi clic. Da allora, miscelare indie e musica classico-contemporanea è considerata un’attività del tutto naturale. L’epicentro è la New York del locale (Le) Poisson Rouge, delle etichette discografiche Cantaloupe e New Amsterdam, dell’ensemble Bang on a Can, del critico del New Yorker Alex Ross che descrive musicisti che ripongono negli armadi gli abiti da sera e ascoltatori che scelgono la musica in un supermercato di stili che va dal rock alla classica. Forse Dessner, Muhly, Stevens e McAlister hanno abusato di tanta libertà. C’è che a volte Planetarium fa girare la testa, ma a volte sembra che qualcuno abbia cliccato inavvertitamente il pulsante della riproduzione casuale di Spotify.
Pubblicato originariamente su IL
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L’ho appena preso e sto iniziando ad ascoltarlo, leggerò con calma il tuo post.
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