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Lunga vita a Randy Newman, l’arciamericano

La scena si svolge in una città americana. Forse è il quartiere di Los Feliz a Los Angeles, magari è Spanish Harlem o forse è una qualche Chinatown coi dragoni avvinghiati ai lampioni e il puzzo di cibo che sembra sfiatare persino dai tombini. Non fa differenza. Quel che è importa è che oggi sono tutti per strada. Scivolano lungo vie costeggiate da insegne come “Sam Wo Restaurant” o “Chuchifritos”. Hanno scarpe malandate, pantaloni lisi, giacche fuori moda e camicie di seconda mano. Hanno lavori mal pagati e vivono ammassati in tuguri maleodoranti. E tutti quanti, cinesi, messicani, italiani, polacchi, irlandesi, tutti hanno l’espressione di chi s’è arreso. Lassù da qualche parte qualcuno misura il loro sconforto. «So che cosa sta accadendo», dice con l’aria di chi la sa lunga. «Mica è un mistero: avete perso la fiducia in voi stessi, è lampante. Potete lamentarvi quanto volete e affogare nella vostra miseria, oppure potere stare a sentirmi». A quel punto un’orchestrina jazz attacca un charleston. È un commento musicale decisamente inopportuno: a che cosa stanno pensando i musicisti? Stanno forse prendendo in giro questi poveracci? Non hanno un cuore? «Sorridete e siate felici», rincara la dose il cantante, «non immusonitevi, non fatevi opprimere da quei bastardi. Sorridete e siate felici, è facile farlo. Se credete nei vostri sogni, finiranno per avverarsi». C’è qualcosa di sadico in Laugh and Be Happy. È un piacere perverso quello di invitare a felicità e gaiezza gente che vive di stenti. E dirglielo mentre un’orchestrina jazz suona un tema ballabile anni ’20 sembra ancora più crudele: è un richiamo a un’epoca in cui l’America serbava una promessa di felicità che questa gente probabilmente non riesce più a sentire. Ma non crediate che l’autore della canzone sia un figlio di puttana insensibile. Ironico: senz’altro. Cinico: sicuramente. Sarcastico: pure. Insensibile: mai. E soprattutto, non confondete il narratore con l’autore. Non va mai fatto quando si ascoltano le canzoni di Randy Newman.

Ci voleva un Randy Newman per cantare l’America fuori dalla poetica dell’uomo qualunque e dall’impegno post sessantottino, dal patriottismo e dal populismo tipici della categoria dei cantautori. Ci voleva un songwriter dissacrante, ma liberale in modo cristallino, un arciamericano, per dipingere questa cosa che ribolle a cui nessuno sa dare un nome. Ci voleva un cantautore non allineato per trovare una terza via tra passività apolitica e movimentismo. È cominciato tutto quanto durante il tour europeo del 2006 quando Newman ha scritto quella che un tempo si sarebbe chiamata instant song. Contravvenendo alla regola che s’è dato di non pubblicare canzoni di stretta attualità e quindi deperibili, ha messo nero su bianco un’originale difesa del suo Paese: A Few Words in Defense of Our Country. La versione di allora per voce e pianoforte era tutta a servizio del testo. Quella di adesso, una specie di valzer cullato dalla pedal steel dell’impeccabile Greg Leisz, è più musicale ma il cuore è pur sempre rappresentato dalle parole, che il New York Times è arrivato persino a pubblicare come editoriale. Apparentemente è una difesa dell’America da parte di un patriota che soffre le critiche ingenerose avanzate dagli europei che coltivano verso gli Stati Uniti un senso di superiorità storica e culturale. In realtà è una stilettata all’amministrazione Bush. Le canzoni di Randy Newman non s’adeguano all’idea del musicista progressista che abbiamo noi europei: la sfidano. «C’è chi ama dividere ogni cosa in bianco e nero. A me piacciono le sfumature. C’è del buono in chiunque, persino in Bush: è stato ad esempio uno dei presidenti più a suo agio con gli afro-americani. E in fondo il repubblicano Richard Nixon è stato un difensore dei diritti civili migliore del democratico Jimmy Carter. La verità è che l’America non è Kennedy o Obama, e nemmeno Nixon o Bush. È un Paese straordinariamente mutevole al suo interno, non lo puoi rappresentare separando i buoni dai cattivi. La divisione tra destra e sinistra non dice granché del Paese giacché in fin dei conti il popolo americano non si cura della politica. Questo disinteresse è uno dei fondamenti stessi dalla nazione». Chiedetegli però quali sono i suoi sentimenti verso l’America e vi dirà senza incertezza alcuna: «Io amo il mio Paese». A quanto pare, ama ogni singolo, lunatico, perverso bastardo che vaga per le sue strade. 
Non è rassicurante?

randy ranewman bnLa visione dell’America di Randy Newman è stata affinata in quarant’anni di songwriting sapido e sopra le righe, volutamente imprevedibile e colorito. In passato Randy Newman ha scritto poco di sé, ma quel poco è illuminante. C’è una canzone dell’88 intitolata New Orleans Wins the War in cui il cantautore racconta quel po’ che ricorda dei suoi primi anni di vita, prima del trasferimento da New Orleans a Los Angeles. In una strofa, in particolare, ricorda come la madre gli fece capire che cos’erano un bianco, un nero, un mulatto. Nacque allora la sua formidabile coscienza razziale e sociale: animata da una grande passione per la Storia con la esse maiuscola, Newman non l’ha usata per costruire barricate di parole, bensì per mostrare quanto assurde fossero certe convenzioni sociali. Ama spiegare quanto male c’è nel bene e quanto bene c’è nel male. Gli piace mischiare le carte. La passione per lo spiazzamento delle convenzioni e il senso di sfida verso il pubblico sta alla base dell’arte di Randy Newman. È un altro modo di vedere l’America e soprattutto di raccontarla. Pensate a Sail Away del 1972. Oltre ad essere uno dei capolavori indiscussi del cantautore, è anche il pezzo in cui Newman trova la sua “voce” definitiva dal punto di vista poetico e timbrico. È una canzone sulla schiavitù, più precisamente sui viaggi degli schiavi dall’Africa al nuovo mondo. Appellandosi alla tradizione di Woody Guthrie, Bruce Springsteen avrebbe scritto una canzone immedesimandosi sulle sorti dei malcapitati, ne avrebbe raccontato in modo vivido le tribolazioni, ci avrebbe fatto commuovere facendoci balenare sotto al naso il loro tremendo destino. Ci avrebbe convinti che la compassione supera ogni barriera e che lui, uomo bianco del Jersey, può mettersi nei panni di uno schiavo rapito in Africa occidentale. Facendo forza sul proprio irriducibile individualismo, Newman s’immedesima nel carnefice e ci fa perdere l’anima con la sua splendida retorica: in America, canta impersonando il mercante di schiavi, «ogni uomo è felice». Magari per un minuto, forse per un solo secondo, siamo con lo schiavista. Siamo con lui per via di uno degli arrangiamenti per orchestra più belli che un cantautore abbia scritto negli anni ’70. Sail Away ha la qualità impalpabile del classico e nel momento stesso in cui ne siamo sedotti ci accorgiamo della sua pericolosità: «Sali a bordo negretto, naviga con me». Un’altra verità della canzone è che siamo più simili allo schiavista che allo schiavo in quanto uomini bianchi occidentali. Newman non ha mai usato il rock per sgattaiolare fuori dalla propria identità borghese e assumere una personalità scapigliata e fuori dall’ordinario. Se Springsteen resta l’eroe della classe operaia, lui è sempre stato un antieroe borghese.

Ma chi lo voleva un cantautore come Randy Newman nel 1968? Che se ne faceva il mondo di questo mostriciattolo di 24 anni col viso paffuto, gli occhiali da secchione e il dolcevita beige? C’erano cose decisamente più eccitanti, là fuori. C’erano il mondo colorito del rock psichedelico, le emozioni forti dell’hard rock, la riscoperta delle radici blues e folk. Nel ’68 Johnny Cash sfidava le guardie della prigione di Folsom, i Beatles pubblicavano l’avventuroso album bianco, James Brown aveva il potere di placare le rivolte, i Rolling Stones flirtavano col demonio. In un’America sconquassata dalle morti di Martin Luther King e Robert Kennedy, questo cantautorucolo di Los Angeles metteva in scena un teatrino crudele. Davy the Fat Boy annunciava davvero qualcosa di nuovo sotto il sole – qualcosa d’inquietante. Davy, bimbo grassottello, emarginato e destinato senz’altro all’infelicità, viene affidato al protagonista della canzone che non trova di meglio che trasformarlo in un fenomeno da baraccone che il pubblico paga per osservare sadicamente. «Lasciate che il cicciottello entri nella vostra vita», dice l’imbonitore intascando le monete. Non era solo una canzone: era l’annuncio d’un nuovo stile. Newman ha fatto a pezzi l’autobiografismo, la convinzione diffusa nel mondo del musica rock che la credibilità sia funzione dell’aderenza dell’autore alla sua storia. Non è così in letteratura e nemmeno nel cinema. Non è necessario che Cormac McCarthy somigli allo sceriffo Ed Tom Bell, né pensiamo che dietro a Jack Torrance ci siano necessariamente le idee e i sentimenti di Stephen King o Stanley Kubrick. Eppure esigiamo che Bruce Springsteen sia nel profondo dell’anima uno di noi: la nostra capacità di credere nella sua musica deriva in parte dalla sensazione che egli sia la canzone che canta. Ci fidiamo dell’uomo perché ci fidiamo delle sue canzoni. Newman si beffa di questo bisogno riservando a personaggi devianti la sua devozione d’autore.

Se la personalità dello scrittore di canzoni si dissolve nel momento stesso in cui egli racconta una storia, allora non ci sono storie che non possono essere raccontate. Da 12 Songs del ’70 in poi è difficile trovare un album in cui Newman non si sia calato in un personaggio gretto, meschino, depravato, o perlomeno discutibile. Quando pare riservarsi il ruolo di osservatore esterno, come nell’attacco dell’agghiacciante In Germany Before the War, Newman finisce per diventare il pedofilo che stupra e uccide la bambina. Quel che è peggio, è che noi siamo con lui, che ci piaccia o no: racconta la storia con una tale delicatezza lirica e musicale da rendere la canzone poetica in modo disturbante. Naturalmente si tratta di uno stile pericolosamente ambiguo, come dimostra il caso di Short People. «Le persone basse non hanno motivo per vivere: hanno piccole mani e piccoli occhi, e se ne vanno in giro dicendo grandi bugie»: è un testo talmente estremo da non lasciare dubbi che non si tratti dei pensieri dell’autore, quanto piuttosto di una satira del bigottismo. Evidentemente non era così palese: dopo la pubblicazione della canzone, che nel 1977 segnò il picco di popolarità di Newman, il songwriter fu al centro di una controversia che rischiò di danneggiarne seriamente la carriera. Ci furono boicottaggi e dischi bruciati. Del resto lui non chiede la nostra approvazione, ma fa leva sulla nostra disapprovazione per affinare la nostra visione del mondo. Ovviamente la manipolazione di sentimenti, luoghi comuni e paure è una pratica che lascia ampi margini d’ambiguità. Il gusto col quale Newman sembra interpretare anche i versi più controversi dice di un certo piacere nel calarsi nei panni più sporchi, maneggiando le viscere della vita americana. Com’è stato scritto, «la distanza dal suo materiale è sempre stata incerta».

randy newman liveQualcuno ha detto che la musica di Randy Newman nasce all’incrocio tra Ray Charles Street e Gershwin Avenue. Significa che nel suo stile il blues si fonde con la canzone pre rock’n’roll. Legato alla sofisticatezza dei compositori del Brill Building più che alla comunicazione di pancia di tanto rock, ha trasformato il boogie di Fats Domino in uno shuffle trascinato, pigro e ammiccante. In questo senso, Newman diventa Newman una quarantina di secondi dopo l’inizio di Davy the Fat Boy. È lì, subito dopo l’introduzione che getta chi ascolta in uno stato di drammatica sospensione, che s’insinua quel pianoforte boogie. È come la promessa di un tipo diverso d’intelligenza lirica e musicale. Da allora non ha mai smesso di esplorare quel boogie e forse non sarebbe successo se non fosse cresciuto a New Orleans. Nato a Los Angeles, vi si trasferì che era appena bambino, come racconta in una bellissima canzone intitolata Dixie Flyer. Lì per una volta l’autore fa a meno di sarcasmo e cinismo e descrive New Orleans come una «land of dreams», una terra dei sogni. «New Orleans ha un posto speciale nel mio immaginario, ma anche in quello dell’America tutta. È un posto davvero diverso: ha un carattere spontaneo, noncurante e spensierato che lo rende attraente. È il posto dove sono cresciuto e adoro la musica che viene da laggiù». Il fascino per la grande canzone americana bianca il giovane Newman l’ha invece ereditato dagli zii, celebri compositori di musica da film. Lo ricordano girare nelle sale di ripresa a sperimentare la potenza espressiva di un’orchestra: doveva essere un’esperienza straordinaria per un ragazzo che s’affacciava sul mondo della canzone. La migliore musica di Newman nasce da quest’incontro, che è anche una celebrazione di una grande eredità bianca e una nera, un incontro che il songwriter ha interpretato affiancandosi sempre a musicisti e produttori eccellenti. Quando ha cercato di alterare questa cifra, come nelle canzoni più moderne di Land of Dreams, ha prodotto le sue cose peggiori. La famiglia di Newman si trasferì ben presto in California, ma il Sud è rimasto iscritto in modo indelebile nel suo songwriting. «Per me» racconta «era il posto dove la vita era diversa».

Il dipinto più convincente del Sud nel repertorio di Newman è il capolavoro del 1974 Good Old Boys. Conteneva una delle canzoni più bella dedicate alla Big Easy, Louisiana 1927, sull’inondazione che in quell’anno lasciò senza casa 700 mila persone. Newman l’ha rifatta di recente, con una ragione in più. «Quel che è accaduto a New Orleans» dice oggi «lo imputo al governo». L’altro capolavoro dell’album era Rednecks. È forse una delle canzoni più significative del californiano, di quel suo modo di parlare con la voce di altri per spiegarci che le divisioni – tra bene e male, nord e sud, buoni e cattivi – sono sempre artificiose. Era una difesa dei sudisti da parte di un sudista che trova ingiusti ed eccessivi i pregiudizi della gente del nord. Il verso «siamo rednecks, e teniamo a bada i negri» rese per molti impossibile cogliere il senso della canzone. S’incazzarono tutti, intellettuali e redneck, newyorchesi e texani. Era una grande canzone.

Lo spirito cinico e disincantato che anima i pezzi a sfondo politico e sociale rende speciali e controversi anche quelli sui rapporti personali. Newman era persino sadico in I Want to Hurt Like I Do con quel refrain, «voglio che soffriate come soffro io». E non era crudele la storia di Lucinda, la ragazza neolaureata che viene portata via dalla macchina per pulire la spiaggia? A che cosa pensava il narratore di Old Man che nel vedere morire il padre solo e abbandonato gli diceva: «Non ci sarà nessun Dio a confortarti: tu stesso m’hai insegnato a non credere in quelle bugie». Ma anche se ci fosse – e nell’opera di Newman c’è, eccome, basti pensare alla sua versione del Faust – Dio è l’arbitro capriccioso e inetto del nostro destino. In Harps and Angels, la canzone, il Creatore è circondato da burocrati pasticcioni che quasi fanno morire la persona sbagliata. Nella vecchia God’s Song Dio rideva di noi uomini e della nostra devozione. Se siete in cerca di rassicurazioni e conforto, il repertorio di Randy Newman non è il posto migliore per trovarli. Il suo mondo è insensato, crudele e guidato dall’avidità. «Sono i soldi che contano», cantava in una canzone di Land of Dreams. Scherzava, ma come dire, non scherzava.

randy newman sigarettaIl passare degli anni – oggi Newman è sessantaquattrenne – non ha addolcito questa visione, ha regalato nuove disillusioni tanto amare quanto liberatrici.
 Nonostante il successo ottenuto in passato, la fama guadagnata come compositore di colonne sonore e il plauso quasi incondizionato dei critici, oggi Newman non può ambire a vendere più di 100 mila copie nel mondo. «Non ho rimpianti» commenta lui «ho ricevuto il massimo che potevo ricevere per il tipo di canzoni che faccio. Ma è vero che la mia musica non è del tipo che ha successo in questa società. Non scrivo canzoni autobiografiche, non mi rivolgo in modo diretto al pubblico, non compongo canzoni d’amore ordinarie. Non è roba che puoi sentire distrattamente». Vale anche per Laugh and Be Happy. Se ti fermi alle prime strofe puoi pensare che il narratore stia facendo del sarcasmo su immigrati miserabili cui è preclusa una forma di felicità piena. E se conosci Sail Away, puoi immaginare che si tratti di una parodia del paternalismo degli americani conservatori. Poi arriva quella frase ed è come un pugno nello stomaco. C’è sempre il charleston. C’è sempre l’orchestrina. E c’è sempre il narratore che la sa più lunga di tutti. È il ritornello che cambia: «Dovete sorridere ed esser felici, ridetegli in faccia perché molto presto prenderete il loro posto». Lo scenario cambia in una frazione di secondo. Gli immigrati sono più affamati di noi occidentali appagati e stanchi, hanno più iniziativa, lavorano di più, fanno più figli: nell’arco di alcune generazioni l’America sarà loro. Il senso della canzone è ribaltato: non è sarcastica, è profetica. «Può sembrare spaventoso, ma è quello che è sempre accaduto nella storia degli Stati Uniti. Perciò non mi spaventa che gli immigrati prendano il nostro posto perché non spingeranno fuori dal sistema chi c’è già dentro. I figli di questi immigrati saranno migliori dei loro genitori così come gli americani di oggi sono migliori di chi li ha preceduti».

È la fine di un impero, come si dice in uno dei momenti più amari di A Few Words, eppure Randy Newman non ha paura. Il charleston di Laugh and Be Happy è adatto a una celebrazione più che a un funerale – a meno che non abbiate nel cuore New Orleans, dove le due cose possono coincidere. «Non ho paura del cambiamento», conclude Newman. «Ogni singolo gruppo d’immigrati arrivato legalmente o illegalmente negli ultimi 150 anni ha finito per migliorare gli States, rendendoli diversi da qualunque altro posto al mondo. È un fatto che voglio celebrare. Non credo che la grandezza di una nazione debba essere necessariamente misurata in termini di potenza militare. Forse va giudicata da come se la passano i figli degli immigrati. Il fatto che abbiano successo nella vita non diminuisce la mia speranza nel futuro: la aumenta».
 Questo sì che è stranamente rassicurante.

 

Pubblicato originariamente nel 2008

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